La pelle dell’orso: Marco Segato e il cast raccontano il rapporto padre-figlio pensando al western
“Quando abbiamo cominciato a riscrivere il libro, si è cercato subito di portare più vicino padre ed orso in un’epoca che sta per finire. E vengono osservati e avvicinati tramite un terzo personaggio, ovvero il bambino. Ci piaceva l’idea di fare un film che andasse incontro a un pubblico, ma senza rientrare nel genere più basso. Noi siamo partiti dalla passione comune per il western, aggiornando il tema universale del padre e del figlio. Poi, volevo realizzare qualcosa che non raccontasse la solita Italia odierna, tra crisi e adolescenza”.
Proveniente dall’universo dei documentari, parla alla stampa romana il padovano classe 1973 Marco Segato, in occasione dell’arrivo nelle sale cinematografiche – a partire dal 3 Novembre 2016, distribuito da Parthénos – del suo primo lungometraggio di finzione: La pelle dell’orso, tratto dall’omonimo romanzo di Matteo Righetto e sceneggiato dallo stesso regista insieme ad Enzo Monteleone ed al Marco Paolini che ne è protagonista, il quale, oltre a precisare che nel film sono stati utilizzati due orsi provenienti dall’Ungheria, osserva: “Per me siamo in un mondo liquido, in cui la figura paterna è spesso un duplex della madre. Questo del film non è sicuramente un padre modello, ma ci si può affezionare a chi non lo è. Il bambino, crescendo, vorrebbe sapere come sia morta la madre, ma, nella vita, vi sono cose che non vengono dette e che si vengono a scoprire per sbaglio. Secondo me, il valore della vita che il mio personaggio attribuisce alla propria non è elevatissimo, ma lui affronta la cosa con dignità, non è un’aspirante suicida”.
Prima che Segato riveli che, durante le riprese, aveva un cavo video di cento metri che gli permetteva di stare lontano dal set, su cui si giravano le scene con la belva, e prosegua: “Come già accennato, la formazione va verso il genere western, quindi abbiamo, poco parlato e pochi dialoghi molto secchi, con un approccio visivo più forte, che è la base narrativa. Tra l’altro, sul volto di Marco abbiamo aggiunto piccoli elementi che contribuiscono a costruire il personaggio senza esagerazioni, come, per esempio, le cicatrici”.
Tutti aspetti su cui il già citato Monteleone aggiunge: “Prima di scrivere il film, abbiamo parlato tanto. Ci sembrava giusto ambientare la vicenda negli anni Cinquanta. Volevamo ritrovare un cinema di immagini e di atmosfere. Tra l’altro, le maschere che vediamo all’inizio del lungometraggio sono in parte inventate, in parte la ricostruzione di una realtà folkloristica”.
Mentre il produttore Francesco Bonsembiante tiene a precisare che tutti gli animali utilizzati – e che non hanno subito alcun tipo di violenza – sono veri; lasciando poi la parola all’altra interprete Lucia Mascino: “La storia mi piaceva perché c’erano un papà, un figlio e la montagna. Poi, Marco Paolini fu per tre giorni mio insegnante di teatro. Inoltre, questa atmosfera western e di mistero mi richiamava e, se riesco a tendere più a Clint Eastwood nei film, sono contenta. E apprezzavo anche l’idea che il mio personaggio aveva di legare e scaldare padre e figlio in quel gelo di ambiente, non rassicurante”.