Karlovy Vary International Film Festival: giorno 4
Prodotto da Israele e Germania, in concorso al 52nd Karlovy Vary International Film Festival, l’esordio dell’israeliano Ofir Raul Graizer (1981) col film The Cakemaker (Il pasticcere). Dopo alcuni film violenti, visti nella sezione ufficiale, un melodramma pacato e minimalista che descrive il mondo puntando sui sentimenti. Il regista, diplomatosi al Sapir Academic College, e con tre corti alle spalle, narra l’incontro in una pasticceria di Berlino di un viaggiatore di commercio israeliano, Oran, col giovane pasticcere Thomas. E’ subito colpo di fulmine. Nasce una relazione discreta e clandestina perché Oran è sposato e padre di un bambino. S’incontrano quando Oran si reca a Berlino per lavoro, senonchè, vittima di un incidente stradale in Israele, Oran esce di scena. Per elaborare il lutto, ma soprattutto per uscire dalla sua solitudine, Thomas va a Gerusalemme dove Anat, la vedova di Oran gestisce un caffè pasticceria. Si presenta come cliente, poi si offre come pasticcere e ha successo.
Thomas si sente quasi a casa sua, apprezzato dagli avventori e stimato da Anat. Ricordi delle descrizioni dei rapporti amorosi con Anat da parte di Oran contribuiscono alla conoscenza del comportamento intimo della donna, ma dopo alcuni mesi di frequentazione sarà lei a offrirgli il suo amore e lui lo accetterà timidamente. Quadretto idillico, dunque, se il fratello di lei, Moti, fin dall’inizio non avesse protestato perché la cucina di Thomas non era kosher. Arriva anche ad apporre dei cartelli sulla porta del caffè per avvertire i clienti. Anat, che ha sempre dichiarato di non essere religiosa li stacca, ma quando frugando fra le cose del marito ritrova nel suo cellulare messaggi amorosi da parte di Thomas, il giovanotto dovrà tornarsene a Berlino, tuttavia la vicenda non è ancora finita. Interpretato da Tim Kalkhof, Sarah Adler e Roy Miller, il film dura 104 minuti e segue il racconto che ne ho appena fatto, lentamente, confezionando pasticcini e senza sorprese.
Totalmente diverso il discorso sul film polacco in concorso, Ptaki spiewaja w Kigali (Uccelli cantano a Kigali), iniziato dal premiato regista Krzysztof Krauze, (scomparso nel 2014) e completato dalla moglie e sua collaboratrice, Joanna Kos. E’ di quelli dei quali a volte si scrive: buono il messaggio, meno il film. Sullo sfondo il genocidio dei Tutsi del 1994 in Rwanda perpetrato dagli Hutu: in primo piano la vicenda della giovane Claudine, di etnia Tutsi, salvata da Anna, ornitologa polacca, che riesce a portarla in Polonia dopo il massacro dei genitori. E qui si svolge il film, che dura due ore, e che studia la situazione della rifugiata, i suoi umori e il rapporto con le autorita’ e con la sua salvatrice. Quando una funzionaria dell’immigrazione chiede se la ragazza vuole restare con l’ornitologa o entrare in un campo di rifugiati, lei opta per il campo, e l’ornitologa non si pronuncia. Mesi dopo, quando Claudine ha tutte le carte in regola per restare in Polonia, un funzionario contatta l’ornitologa per dirle che ora puo’ ospitarla senza problemi, ma lei risponde di averla aiutata pagandole il passaggio aereo e di averla portata in Europa. Tuttavia nelle scene successive vediamo Claudine a casa di Anna, e nuovi problemi derivanti dal fatto che tornata la pace in Rwanda lei vorrebbe partire per trovare e seppellire i corpi dei genitori, ma la legge richiede cinque anni di permanenza prima di poter uscire e rientrare nel paese. Se parte, non puo’ piu’ rientrare. Alla fine Claudine arriva a Kigali alla ricerca dei suoi in una distesa di cadaveri. Intercalato da scene con avvoltoi che dilaniano il cadavere di un mammifero, da scene con insetti e da altre nelle quali l’ornitologa fa donazione di un importante collezione, il film si conclude come una sorta di collage che vorrebbe dire molto, ma non lo dice bene.
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