Karlovy Vary International Film Festival 2018: giorno 2
Il secondo giorno dei film in concorso della sezione ufficiale del 53rd Karlovy Vary International Film Festival presenta il primo dei due film cechi della competizione, Všechno bude (Mosche d’inverno) di Olmo Omerzu, nativo della ex Jugoslavia, Ljubljana 1984, ma residente e attivo nella Repubblica Ceca dove ha già diretto due film, premiati a Berlino e a San Sebastian. Film di 85 minuti interpretato da due minorenni non professionisti, Heduš di dodici anni e Mára di quattordici, adombra i film On the Road per descrivere anni di crescita e di ribellione quando si vorrebbe andare dappertutto senza veramente sapere dove.
Si apre con Mara alla guida di un’auto rubata e Heduš mimetizzato da cacciatore, armato di un mitra giocattolo, il quale insiste per partecipare al viaggio che il coetaneo sta per intraprendere. Trovato un accordo si dirigono al sud, sui monti innevati. Durante una sosta sulle rive di un lago scorgono un vecchio che sta affogando un cane. Lo salvano e lo prendono con loro. E quando lungo la strada accolgono una ragazza che sembra essere stata mollata da un compagno, formano un quartetto.
I due mocciosi, diciamo così, accarezzano sogni erotici, ma l’adolescente è scaltra, e dopo essere stata tratta d’impaccio dai due ragazzini da un giovanotto importuno, li molla sulla strada. Nel loro itinerario c’è anche la casa del nonno di Mára, che è stato appena colto da un attacco e che i due portano all’ospedale. Poi litigano. Heduš prende il cane e se ne va. Mára, fermato da un poliziotto, finisce in guardina. Accusato di aver rubato l’auto, viene affidato a una signora in uniforme che sa il fatto suo e che riesce a fargli dire tutto ciò che vuol sapere. E sta per essere rispedito al suo paese quando l’amichetto con uno stratagemma riesce a farlo evadere e sono di nuovo in macchina sulla strada.
Simpatico, senza dubbio, e con qualche risvolto divertente, un piccolo film sui sogni dei primi anni della pubertà, sul desiderio di indipendenza, di libertà e di fuga, e in allegato, due profili critici di due singolari, forse, agenti di polizia. Con Tomáš Mrvik, Jan František Uher, Eliška K?enková, Lenka Vlasáková, Martin Pechlát.
Dalla Boemia al mondo ortodosso della comunità ebraica di Gerusalemme arriviamo all’altro film in concorso, Geula (Redenzione) di due registi sulla cinquantina, l’israeliano Joseph Madmony, e Boaz Yehonatan Yacov, di origine sudafricana. Geula ha sette anni. Necessita trattamenti di chemioterapia molto cari. Suo padre, Menachem, è vedovo e lavora in un supermercato. Avendo fatto parte anni prima di una band rock, torna per un aiuto dai vecchi amici che gli offrono di cantare durante la celebrazione dei matrimoni. Lui accetta, ma la custodia della bambina, il lavoro regolare e quello di supporto, e soprattutto l’equilibrio tra gli studi religiosi e il comportamento quotidiano rendono quasi impraticabile la sua vita, con improvvisi sbalzi d’umore e distinguo con i vecchi amici.
Interpretato con molta sensibilità da Moshe Folenflik e dal quartetto che compone la rock band che si esibisce in alcune esecuzioni che punteggiano il racconto, il film dura cento minuti e segue l’itinerario psicologico di Menachem, sempre in equilibrio tra offerte e profferte quotidiane, tra la difficoltà di reperire fondi per trattamenti sempre più cari e quella di accettare somme che comportano implicazioni sociali poco chiare, e ancora, la lotta quotidiana con il tempo da dedicare a Geula, al lavoro e agli amici. Nell’insieme un’incursione nella comunità ebraica ortodossa con i suoi problemi e i variegati interpreti.
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