Il Cinema al cinema in 8 film (e mezzo).
Il cinema che racconta se stesso, la sua magia e le passioni che da sempre ha ispirato sin dai suoi prima vagiti; il cinema che celebra se stesso ma che anche mette e nudo le proprie debolezze e bassezze, le incongruenze e le impietose logiche di una forma espressiva che ha sempre ondeggiato tra le auliche aspirazioni di una forma d’arte e le spietate e rigide regole dello (show) business. Uno sguardo poetico, autoironico, introspettivo e divertito ma anche crudele e amaro, un genere che ricomprende film di diverse epoche e di autori molto diversi tra di loro, tra i quali brillano registi che hanno scritto la storia del Cinema.
Ne ho scelti 8, proprio per celebrare quel film da un titolo così enigmatico e così evocativo che ritengo essere il più significativo tra quelli che trattano del cinema, dei suoi protagonisti, delle sue maschere, spesso tristi e problematiche, quasi mai allegre e spensierate, quasi a volerci ricordare il confine, indelebile e insuperabile, tra l’immaginario che scaturisce da metri di celluloide e la realtà, elementi apparentemente non coincidenti.
Si parla, ovviamente di 8½ (1963) . Il film scritto (assieme a Ennio Flaiano e Tullio Pinelli,) e diretto da Federico Fellini può a buon diritto essere posto in capo questa lista. Racconta le vicende di Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) regista di fama che affronta la scrittura del suo prossimo film, afflitto da una crisi creativa, alle prese con problemi di carattere professionale (le maestranze del cinema, produttori, tecnici, attori lo circondano affliggendolo con mille problemi) e da problemi di carattere personale (malattie, amanti, mogli piombano nel suo riposo termale come disgrazie inevitabili); le sue sempre più frequenti digressioni nella fantasia e nel surreale, il progressivo confondersi dei due piani fino all’ultima onirica circense scena finale dove un carosello di maschere sfila in un girotondo con il regista che ritrova la pace e la serenità ed appiana i conflitti che fino allora lo avevano afflitto. L’opera , con cui Federico Fellini vince l’Oscar nel 1964, è diventato negli anni un vero e proprio film di culto ed è considerato uno dei capolavori della cinematografia mondiale. Un film sul cinema inteso come metafora del rapporto vita e arte, come simbolo emblematico dell’artista che vive appieno la sua opera; come scrisse Truffaut, Fellini "mostra che un regista è prima di tutto un tizio che dalla mattina alla sera viene seccato da un mare di gente che gli pone domande alle quali non sa, non vuole o non può rispondere".
Truffaut che dieci anni dopo, nel 1973, scrive e dirige Effetto Notte (La Nuit américaine). Il film, per certi versi, riprende l’idea di 8½ mettendo in scena un film nel film. Siamo a Nizza su un set cinematografico dove si gira Je vous présente Pamela (Vi presento Pamela). Protagonista è la troupe del film, le loro questioni personali, le loro relazioni che si intersecano con le problematiche della lavorazione: dal regista Ferrand (interpretato dallo stesso Truffaut) agli attori, ai tecnici. Un tourbillon di incastri, giocati sui due piani di finzione e realtà, segnato dal ritmo incessante e faticoso della produzione che deve andare avanti, un manifesto d’amore per il cinema ma anche la descrizione di come la vita sul set, una volta terminata la lavorazione del film, possa rappresentare una sorta di finzione nella finzione, finita la quale tutto torna ad una passiva normalità.
Alla stregua di queste due opere possiamo annoverare I Protagonisti (The Player) (1992) di Robert Altman. Il taglio del regista americano, è più realistico e votato all’amara descrizione dello show business hollywoodiano. Altman abbandona i toni onirici od anche soltanto sentimentali per descrivere le perverse logiche che governano le regole produttive della settima arte. Di fianco alla storia principale di un produttore (Tim Robbins) che si rende omicida di uno sceneggiatore (che incontra in un cinema dove proiettano Ladri di Biciclette) si snodano vicende parallele: registi integerrimi che scendono a biechi compromessi pur di lavorare, ascese e rapide cadute di produttori, personaggi la cui ipocrisia costituisce la cifra innervante. Un film, doloroso, ricco di citazioni e girato magistralmente da Altman. Il piano sequenza inziale di oltre nove minuti dove si discute dei grandi piani sequenza del cinema, ne è un esempio meraviglioso e illuminante.
Billy Wilder nel 1950 dirige Viale del Tramonto (Sunset Boulevard). In un lungo flashback il protagonista William Holden (morto…) racconta la storia del suo incontro con un’ex attrice (Norma Desmond interpretata da Gloria Swanson) e il suo maggiordomo (al quale dà le sembianze il regista Erich von Stroheim) e della parabola che conduce sino al suo assassinio. Un film amaro e struggente che tratta il tema dell’ex divismo; noir in bianco e nero che vive di molti parallelismi come la scelta della Swanson a sua volta diva del muto che non lavorava da più di dieci anni e di Von Stroheim, grandissimo regista austriaco del periodo ruggente del cinema muto al quale si devono riconosciuti capolavori del cinema delle origini come Rapacità (1924). Wilder gira il film imprimendo all’opera ritmi e emozioni da thriller. vincendo tre Oscar ed annoverando tra gli attori anche Cecile B. De Mille che interpreta se stesso.
Ancora più amaro, più crudele e spietato è forse Bellissima del 1951 di Luchino Visconti. Una lista di grandissimi del cinema italiano (Zavattini autore del soggetto, Suso Cecchi D'Amico e Francesco Rosi sceneggiatori assieme allo steso Visconti), la più amata delle attrici drammatiche italiane Anna Magnani che interpreta una madre che sogna un futuro da diva per la propria figlia attratta dalla notizia che il regista Alessandro Blasetti cerca una bambina per il suo nuovo film. Siamo nella Cinecittà degli anni d’oro, frequentata da un sottobosco di piccoli e squallidi personaggi, approfittatori e venditori di fumo. Il ritratto che ne fa Visconti è impietoso e la scena delle risate della troupe dopo il provino della bambina ne è l’emblema più eloquente. Il regista milanese mette a nudo la grande illusione rappresentata dal mondo platinato dei lustrini e delle pallette, e dei pericoli e delle trappole che questo nasconde.
Ma il cinema non è soltanto illusione e delusione, è anche partecipazione e sentimento e passione travolgente che può cambiarti la vita diventando la tua principale se non unica ragione di vita. E’ quello che succede in Nuovo Cinema paradiso film del 1988 con il quale il regista siciliano Giuseppe Tornatore vince l’Oscar come miglior film straniero. La storia è quella del piccolo Salvatore che dalla platea del cinema del suo paese, passa prima alla cabina del proiezionista per poi partire e lasciare la sua terra natia per diventare un affermato regista. Una storia d’amore e di amicizia trattata da Tornatore come una fiaba, che ha il suo culmine nella lunga e commovente sequenza finale (un appassionato omaggio al cinema mondiale nella quale sono montate tutte le scene di baci tagliate dalla locale censura rappresentata dal prete del paese).
Magia e incanto sono le anche caratteristiche di La Rosa Purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo) del 1985 di Woody Allen. Tom Baxter, un personaggio di un film (La Rosa purpurea del Cairo, per l’appunto) esce dallo schermo dopo essersi accorto dell’assiduità con la quale una spettatrice frequenta il cinema in cui il film da giorni è proiettato. Allen gioca con finzione e realtà divertendosi e divertendoci, fino a toccare temi pirandelliani quando vediamo l’incontro tra l’attore che interpreta Baxter e il suo personaggio. Il tutto sulla leggerezza della commedia e con la raffinata ed elegante intelligenza tipica del regista newyorkese.
Chiudiamo questa personalissima lista con Hugo Cabret, film del 2011 diretto da Martin Scorsese. Esplicito omaggio a Georges Méliès ed al cinema degli artigiani e dei costruttori di macchine magiche e meravigliose (come il cinema è); omaggio al cinema fantastico e alle suggestioni e sogni che questo ispira è girato in 3D dal regista americano e racconta la storia di Hugo Cabret, orfano che vive in una stazione ferroviaria di Parigi negli anni trenta. Qui stringe un’amicizia con il gestore di un chiosco di giocattoli che si rivelerà poi essere, per l’appunto il regista Georges Méliès. Film anche questo ricco di citazioni di film del passato e riverente omaggio alla macchina dei sogni inventata dai fratelli Lumiere di cui vediamo le sequenze di L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat. Quelle riprese che spaventarono gli ignari spettatori che credettero che quel treno potesse effettivamente uscire dallo schermo e travolgerli tutti: finzione e realtà, ancora una volta mescolati in un indistinguibile abbraccio.