Festival di Cannes 2019 – Tra lotte sociali e disuguaglianze, si erge potente la voglia di giustizia e riscatto
E un’altra edizione del Festival di Cannes se ne va… tra le solite mille difficoltà, le file interminabili per i film più attesi, la stanchezza, le polemiche per i premi, il solito tasso dopante di caffeina, ma anche tanta soddisfazione per un’annata che in fatto di film si è rivelata bella, eclettica, e di gran livello come da previsioni. Tra riflessioni su identità sessuali ed esistenziali tutte da scoprire (Sciamma, Dolan), scontri di classe, di religione, e tra popoli (Mati Diop, Loach, Dardenne, Ladj Ly, ma anche Mendonça Filho e Juliano Dornelles e Suleiman), libere elucubrazioni sul tema della scelta e/o della consapevolezza (Malick, ma in fondo anche il nostro Bellocchio), divertissement puri sull’arte del cinema e delle sue tante possibilità (Jarmush, Tarantino e anche Almodovar), il concorso 2019 è stato davvero ricco, interessante ed eterogeneo.
Il clima di quest’anno non è stato per niente clemente, e in dodici giorni di festival Cannes ci ha regalato quasi dieci giorni tra pioggia e nuvole, ma a portare il sole sono stati come al solito i tanti bei film. Alcuni davvero splendidi, e che si sono già ritagliati uno spazio nel cuore. Tra tutti, l’energia malinconica e avvolgente di Dolan e del suo Matthias & Maxime, l’introspezione emotiva di Celine Sciamma con il suo bellissimo scavo interiore in Portrait of a Lady on Fire, l’ottimo film di Bellocchio sulla vita del pentito di Mafia Tommaso Buscetta interpretato da un grande Pierfrancesco Favino (per il quale speravamo in un premio miglior attore), ma anche lo sguardo stralunato e critico di Elia Suleiman nei confronti di un mondo sempre più bizzarro e violento, e l’energia pura, originale e “a suon di fischi” de La Gomera del rumeno Corneliu Porumboiu (dispiace che anche lui sia rimasto completamente a bocca asciutta). Ma si sa che al cinema le percezioni e sensazioni sono sempre molto relative e diverse a seconda dell’occhio di chi guarda… e allora veniamo ai premi che sono stati ufficialmente decretati dalla giuria di quest’anno capitanata da Alejandro González Iñárritu.
Ad Atlantics della regista ed attrice franco-senegalese Mati Diop va il Grand Prix. Un riconoscimento tutto sommato giusto e sensato per la prima regista donna di colore in concorso a Cannes che rilegge a suo modo, con un film imperfetto ma che emana un grande calore umano, il tema dell’immigrazione e della morte, di una sofferenza che continua a vivere prima e oltre quei viaggi della speranza per mare che spesso mutano in morte e sprofondano nel silenzio e nell’indifferenza generale.
Antonio Banderas, per Dolor y gloria di Pedro Almodovar, ed Emily Beecham, per il film Little Joe di Jessica Hausner, vincono i premi come migliore attore ed attrice. E se Antonio Banderas sbaraglia la concorrenza (che includeva anche il nostro Pierfrancesco Favino nella notevole interpretazione di Tommaso Buscetta in Il traditore di Bellocchio) nei panni dell’alter ego di Pedro Almodovar, Emily Beecham vince grazie al magnetismo algido di una scienziata disposta a tutto pur di far brillare le sue scoperte.
I fratelli Jean Pierre e Luc Dardenne, per il film Young Ahmed, vincono il premio per la migliore regia. Un premio questo davvero molto discutibile che va a due registi da sempre osannati, ma che quest’anno presenziavano al Festival con uno dei film forse più deboli di tutto il concorso, e soprattutto contro prove di regia davvero magistrali.
Va a Portrait of a Lady on Fire di Celine Sciamma il premio per la migliore sceneggiatura. Contenti del fatto che il bellissimo film di Celine Sciamma abbia portato a casa almeno un premio, resta il dubbio sul premio alla sceneggiatura per un film che, di fatto, è tutto nella regia, nel modo di avvolgere il dramma emotivo interiore delle protagoniste e di accompagnarle nel loro viaggio interiore.
Menzione speciale per il cortometraggio Monstruo Dios di Agustina diSan Martin e per il film it-must-be-heaven/2019 di Elia Suleiman. Menzione doverosa e assai condivisibile per Suleiman e per il suo stralunato sguardo su una realtà e su un mondo che appaiono sempre più sincronizzati e distanti, simili e opposti, luoghi che potrebbero essere qualsiasi cosa, perfino una forma stilizzata e caricaturale del Paradiso.
Infine e in primis, La Palma d'oro 2019 va a Parasite del sud-coreano Bong Joon-Ho, un film molto amato e che già prima delle premiazioni stava facendo parlare molto di sé. Tanti quest’anno i film che hanno trattato il tema delle differenze di classe sociali e di lotta alla disuguaglianze. In un’estetica molto affascinante che pone a confronto la limpidezza algida e sofisticata della ricchezza all’immagine trasandata e sciatta della povertà, il coreano costruisce una storia di vendetta che mescola vari registri passando dall’esistenzialismo più limpido allo splatter più macabro. Un’opera comunque interessante e incisiva che fa leva sulla straordinaria voglia di riscatto all’interno di un mondo, però, dove lo scarto è quasi sempre troppo ampio perché si compia davvero un cambiamento sostanziale, e dove nemmeno la morte – infine - appiana le distanze sociali. Bong Joon-Ho rilegge in chiave meno poetica e più caricaturale quell’affare di famiglia già vincitore della palma dello scorso anno. Due orientali che vincono per due anni di fila con film che inquadrano, a loro modo, la famiglia quale unione in grado di fare la forza, sempre e comunque, e anche al netto dei risultati sperati e ottenuti.
Si chiude dunque un’altra annata da ricordare, e si porta a casa una bella lista di film da vedere e rivedere. Come sempre, grazie a tutti, e alla prossima!
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(Fonte foto: Pagina Facebook del sito ufficiale del Festival di Cannes)