Da Pasquino a Jeeg Robot: duecento anni di Roma al cinema, in sette film (e mezzo)
« – Dimmi un po' ragassolo, tu conosci un certo Mario che abita qua intorno?
– Qui de Mario ce ne so' cento.
– Oh sì va bene, ma questo l'è uno che ruba...
– Sempre cento so'. »
Sette film, come i sette re di Roma o i sette colli. Sette opere cinematografiche nelle quali la città eterna è protagonista, con le sue grandezze e le sue bassezze, profonde e meravigliose. Sette film (e mezzo) che ne raccontano la bellezza e le contraddizioni ora rendendola protagonista assoluta dell’opera come una grande diva rilassata su un canapè, ora rappresentandola come una suntuosa scenografia sullo sfondo della quale scorrono le vicende umane dei suoi abitanti, siano essi cittadini, patrizi e plebei o stranieri, barbari conquistatori, ricchi turisti, migranti disperati, protagonisti o emarginati della vita cittadina. Sette film che ne raccontano anche la storia tormentata degli ultimi 200 anni: la Roma papalina delle pasquinate, la Roma del secondo dopoguerra, quella ladruncola e truffaldina, quella scanzonata e fiabesca del miracolo economico, la Roma trascolorata e onirica, la Roma delle borgate di cemento dalle quali si evade solo grazie ai miracoli. Sette film, sette registi diversi per esperienze e formazione, lontani nella geografia fisica e culturale ma accomunati – ed irretiti - dall’intrinseca poesia di una città descritta anche cinica ed indifferente ma che tutt’altro che indifferenti lascia chi vi nasce ma soprattutto chi vi approda da lidi lontanissimi e remotissimi. Sette film, tre Oscar, tutti pietre miliari o innovativi di generi, tutte opere rimaste profondamente assestate nel pubblico di ieri e di oggi.
Nell'anno del Signore – Luigi Magni – 1969
Luigi Magni, l’unico romano de Roma (lo sono anche Mainetti e Moretti – anche se quest’ultimo nasce a Brunico - , ma non con la stessa veracità del regista nato nel 1928 e scomparso qualche anno fa), con “Nell’anno del Signore” inaugura un vero e proprio genere, quello dei film ambientati nella Roma papalina, un po’ boccaccesca, un po’ bigotta, coacervo di stridenti contraddizioni spesso più apparenti che reali e sfocianti quasi sempre in grandi nulla di fatto. Come quello che accade “Nell’anno del Signore” dove le aspirazioni rivoluzionari dei carbonari Targhini e Montanari (il Jeoffrey de Peyrac della bella Angelique) vengono tarpate sul nascere di fronte all’ignavia ed all’indifferenza del popolo indolente alla rivolta ed al cambiamento. “Buonanotte, popolo” è l’ultima battuta di Montanari prima che la ghigliottina gli cali fatale sul collo. Film dal cast stellare che annovera tra i più grandi attori italiani dell’epoca. Nino Manfredi disegna un Pasquino con quella melanconica ironia così tipica e peculiare dell’attore laziale, Claudia Cardinale (doppiata) nella parte di una “giudia” smaliziata e concreta così distante dall’utopia di Montinari del quale ovviamente si innamora, Enrico Maria Salerno razionale e disincantato ufficiale della polizia papale, Alberto Sordi fa il frate - che fino all’ultimo tenta di convertire i due carbonari antipapali. Il suo dialogo con Ugo Tognazzi che veste i panni del Cardinal Rivarola è la chiosa del film e rimane tra le pagine più belle del cinema italiano:
- Noi siamo sempre dalla parte giusta – risponde il Cardinale ai dubbi del frate circa l’esecuzione dei due carbonari.
- Pure quando sbagliamo? – gli si rivolge il frate.
- Soprattutto quando sbagliamo. È facile stare dalla parte giusta quando si ha ragione.
- Che è, un dogma, eminenza?
- No fratello. È la tragedia di chi ha il potere. Per cui lasciamo che la giustizia compia il suo corso.
Film che riscosse un enorme successo di pubblico tanto che a Roma le sale dovettero prevedere una proiezione supplementare dopo la mezzanotte, è il primo di una trilogia a cui seguirono In nome del Papa Re e In nome del popolo romano. Girato nella Roma storica – contrappuntato dalle musiche originali di Armando Trovaioli - si riconoscono Piazza del Popolo, Piazza Mattei al ghetto, Ponte S.Angelo, S.Bartolomeo all’Isola Tiberina e Ponte Fabricio. Sul solco, ma con diversi esiti ed intenti, da ricordare, naturalmente, Il Marchese del Grillo di Monicelli e Sordi, State buoni se potete sempre di Magni sulla vita di San Filippo Neri ed ambientato nel ‘500 e La carbonara del 1999, l’ultimo film di Magni in cui torna ai temi di “Nell’anno del Signore” , ma i tempi sono cambiati ed il successo ottenuto trent’anni prima è solo un pallido ricordo.
Ladri di Biciclette – Vittorio De Sica – 1948
Quattro volte premiato come miglior film straniero (Premio Oscar - Golden Globe - National Board of Review Award , BAFTA) il film del ciociaro Vittorio De Sica, racconta la storia ormai universalmente nota del furto della bicicletta di Antonio e della ricerca assieme al figlio Bruno. Manifesto del neorealismo, ha come protagonista, assieme ai due sfortunati protagonisti padre e figlio, la Roma del dopoguerra – ancora vergine dallo scempio dei palazzinari di qualche anno successivo - fotografata in bianco e nero, fatta di assenze e strade larghe e vuote percorse da biciclette come fossero torme di uccelli migratori. "Tutta la vita di Roma passa in questo film chiuso nel rigido giro d'un sabato e d'una domenica; tutta la vita della Roma periferica, dai quartieri più miseri a quelli borghesi di Piazza Vittorio: i mercatini di Porta Portese, la Messa del Povero, il Banco dei Pegni, i commissariati, le rive del Tevere, lo Stadio, persino le case più equivoche..." (Da Il Tempo, 22 novembre 1948). Ma anche il Tufello dove la Roma proletaria parte all’alba in bicicletta verso il centro per trovare lavoro. Roma non è solo nei luoghi, nei palazzi, nei muri scrostati, nelle trattorie buie e grigie. Roma è anche nelle facce e nei volti, quello scavato di Antonio (Lamberto Maggiorani) operaio della Breda che il regista scelse come protagonista o negli occhi di Bruno (Enzo Staiola) , il bambino, che de Sica scovò a Garbatella e che intraprese, successivamente, una discreta carriera come attore professionista. E’ una Roma umanissima e tragica, quella descritta da De Sica, dove convivono bontà e cattiveria, crudeltà e dolcezza, pietà e durezza. “A tutto si rimedia, meno che alla morte.” È Antonio che cerca di consolare Bruno, una sorta di paradigma per una città che fa dell’eternità la sua cifra dominante. Film citatissimo, tra i tanti mi piace ricordare l’omaggio resogli da Scola in C’eravamo tanto amati – e intrinsicamente al cinema ed alla passione che scatena - quando Stefano Satta Flores sbaglia appositamente la risposta al quiz che lo avrebbe reso ricco pur di raccontare l’episodio – reale – dell’espediente tramite il quale De Sica riuscì a far piangere il piccolo Enzo Staiola.
I Soliti Ignoti – Mario Monicelli – 1958
Dopo la guerra e prima del boom, la Roma descritta da Monicelli (toscano autentico) è quella truffaldina e ladruncola, dell’arte dell’arrangiarsi , la celebrazione del fallimento come arte sublime, la contraddizione giocosa di una vita trascorsa a delinquere ma solo per sbarcare il lunario, non per arricchirsi e vivere tra velluti e ori, il non sense di un piano architettato come principi della rapina, per sgraffignarsi una pasta e ceci semifredda e appiccicaticcia. Per certi versi, il trionfo della Roma indolente, abbarbicata su se stessa, troppo stanca o, semplicemente, troppo indifferente e apatica per alzare il sopracciglio oltre quello che con poca fatica può essere preso, anche se poco, per una appena dignitosa sopravvivenza. E, se Ladri di biciclette inaugura la stagione del neorealismo e gli dà pieno compimento, con I soliti Ignoti Mario Monicelli – assieme probabilmente a Dino Risi – inaugura il genere della Commedia all’italiana, un filone, come noto, entro il quale il cinema italiano per i prossimi trent’anni troverà gloria e grandezza, profitto e riconoscimento anche fuori dai confini nazionali. Ed è forse proprio per questo che la coralità dei personaggi è rappresentativa dell’Italia intera, dalla Sicilia fino alle brume del Nord. Ci sono i romani Peppe er Pantera (Vittorio Gassman), Tiberio (Marcello Mastroianni), Mario (Renato Salvatori) a cui si aggiungerà nell’“Audace colpo dei soliti ignoti” Ugo "Piede amaro” (Nino Manfredi), ma anche il napoletano Dante Cruciani (Totò), i siciliani Ferribotte (il sardo Tiberio Murgia) e Carmela (Claudia Cardinale), il bolognese Capannelle (Carlo Pisacane) la veneta Nicoletta (Carla Gravina). Un‘umanità variegata, con le sue meschinità e piccole viltà, ma anche con un grande cuore che la “ruvida” maschera del criminale non riesce a mascherare. Siamo nella Roma di periferia dei primi palazzoni che iniziano ad ergersi nel cielo capitolino, delle case popolari, dei cantieri che disegneranno la città degli anni che verranno. I quartieri di Porta Metronia, il ponte sulla ferrovia a Via Nomentana, il costruendo quartiere di Montesacro, la terrazza di Dante Cruciani a Portonaccio, ma anche Porta Portese, Regina Coeli e, soprattutto, Via delle Tre Cannelle (denominata nel film Via delle Madonie), al centro, dietro piazza Venezia, là dove si svolgerà il furto con scasso più scombinato e strampalato della storia del cinema e che il cinema, più o meno esplicitamente, ha spesso copiato o comunque dal quale molti - anche oltre oceano - hanno preso spunto. Il film finisce, paradigmaticamente in periferia. Un cantiere, dove er Pantera viene inghiottito tra la folla dei manovali a giornata, quasi a voler significare la fine dell’epopea picaresca dell’improbabile banda di ladri.
La Dolce Vita – Federico Fellini - 1960
Basterebbe la scena di Anita Ekberg nella fontana di Trevi per eleggere questo film tra il novero di quelli che maggiormente e più significatamente celebrano Roma (peraltro, curiosamente, la Ekberg la ricordava girata a gennaio mentre Mastroianni in una sera di Marzo). Una Roma lontana anni luce da quella piccolina descritta ne I soliti Ignoti (i cui cantieri si sono ora trasformati in palazzi eretti). Fellini (riminese) disegna una città opulenta e l‘inizio della sua decadenza sullo sfondo della quale scorrono nobili e prostitute, dive del cinema e ballerine, scrittori e reporter falliti. Come ebbe a dire il Morandini Roma è raccontata come una "Babilonia precristiana" e "una materia da giornale in rotocalco trasfigurata in epica". Film ricco di simboli, come peraltro quasi sempre nella produzione di Fellini, che hanno dato luogo ad interpretazioni spesso contrastanti tra loro, Fellini e i suoi sceneggiatori (Pinelli e Flaiano) prendono spunto più o meno esplicitamente da fatti cronaca nera accaduti in quegli anni e che hanno caratterizzato un “ generone” romano al quale Fellini attinge per universalizzare il messaggio. Girato per la maggior parte in studio dove furono ricostruite le ambientazioni in via Veneto o l’interno della cupola di San Pietro, a parte la nota sequenza della Fontana di Trevi, Fellini gira gli esterni a Tor de’ Schiavi nel quartiere Centocelle ed utilizza la Roma della periferia allora estrema (panorami del quartiere Eur) e i dintorni della città come Fregene, Passo Scuro e Bassano di Sutri.
Come accade anche in Ladri di Biciclette la città è la vera protagonista di ciò che si racconta, i personaggi sono simboliche appendici di questa, figurine che ne rappresentano i vizi (molti) e le virtù (poche). Come dice Toni Servillo “Fellini con La dolce vita che doveva intitolarsi La grande confusione, guardò Roma dolcemente appoggiato a una balaustra e vide un'Italia che viveva sulla spinta del rilancio dopo la guerra.” E detta dall’ l’attore napoletano che cinquant’anni dopo girerà La grande bellezza questa affermazione assume un gusto del tutto particolare.
Accattone – Pier Paolo Pasolini - 1961
“Accattone”, ma potrebbe essere anche “Mamma Roma”. Nelle sue prime due opere cinematografiche, il regista poeta scrittore polemista friulano, ha saputo cogliere, più di chiunque altro, l’intrinseca poesia della città trasfigurandola nelle vicende dei suoi personaggi perduti ed antichi, archetipi di un mondo che non ci sarebbe più stato o che, forse, è esistito solo nella mitificazione fattene dall’autore. Protagonista è il sottoproletariato andatosi a creare nelle estreme periferie romane, le borgate, escluso dal benessere economico del boom degli inizi degli anni ’60. Un composito mondo fatto di ladri senza quartiere, prostitute redente, papponi, “bigonzi e mercatari” come Mamma Roma chiama i suoi colleghi fruttaroli…. Un mondo di perdenti e di perduti per i quali qualsiasi ambizione di cambiamento ed emancipazione è destinata a fallire risolvendosi in tragiche soluzioni.
Pasolini utilizza gli esterni girando nei luoghi simbolo della periferia romana: via Casilina, via Portuense, via Appia Antica, via Baccina, Ponte Sant'Angelo, Acqua Santa, via Manuzio, Ponte Testaccio, il Pigneto, borgata Gordiani, Centocelle, la Marranella per “Accattone”; Casal Bertone , il Quadraro, Tor Marancia per “Mamma Roma”, nel quale ricordiamo le due lunghe carrellate notturne costellate da prostitute, soldati, omosessuali e Mamma Roma che incede tra essi. Ruderi e catapecchie, viali e bianchi palazzi sorti come funghi fotografati da Pasolini con un bianco e nero “pittorico” (“la fotografia, vorrei assomigliasse un po' alle riproduzioni in bianco e nero del Masaccio” dirà il regista) e contrappuntate dalla musica barocca (Bach in “Accattone” e Vivaldi in “Mamma Roma”) che evidenziano lo stridore ed enfatizzano un senso di straniamento. E la città è culla e tomba per i sottoproletari cantati da Pasolini. E se Accattone muore con la testa riversa su un marciapiede, chiosata dal un segno della croce al contrario di un suo compagno, Mamma Roma è “lasciata alla sua terrena disperazione, con lo sguardo perso in una Roma lontana e assassina che le fa da controcampo”. (Loris Zuttion).
La grande bellezza - Paolo Sorrentino – 2013
“Non c'è bellezza nella Roma splendida di Sorrentino. La volgarità e il cinismo ne sono padroni, come lo sono di Jep, che tuttavia ne ha orrore.” Roberto Escobar.
E’ il napoletano Sorrentino a celebrarne la definitiva decadenza? Viene da chiedersi leggendo le critiche e valutando i commenti che hanno seguito l’uscita nel 2013 della “Grande Bellezza”. Jep Gambardella è Roma e Roma è Jep Gambardella, scrittore e giornalista, mondano ripugnando la mondanità, pieno di sé rifuggendo l’autoreferenzialità, famoso per un solo libro pur odiando l’arte fine a se stessa. Eppure, formidabile contraddizione, pochi come Sorrentino hanno saputo cogliere l’abbagliante e stordente bellezza di una città, fascinosa come una medusa che danza nel mare, celebrandone la sua infinita decadenza e cantandone l’eterna e struggente bellezza.
Vincitore dell’Oscar e di numerosissimi premi nazionali ed internazionali, è un film ricco di spunti e con un'idea dietro che sorregge tutta l'opera: la grande bellezza delle nostre radici rispetto al niente di oggi. Sarà nostalgico, retrò, forse anche un po' snob ma i fatti che porta a sostegno della sua tesi sono incontrovertibili. L'impietoso paragone tra l'impiastricciare inconsulto della tela e la fuga notturna nei musei ne è una testimonianza. E questo meraviglioso amore per la bellezza è segnato dall'innato talento di Sorrentino nel fotografare una città, un luogo, le oblunghe volute di una scala di un elegante condominio romano, la piega di una ruga millenaria. Capace di grazia nel raccontarci con leggerezza la morte di una persona, tagliente come un coltello nello smascherare con un monologo o una battuta le falsità dirompenti di “una donna con le palle”.
Roma è nel film e la sua presenza è palpabile e fisica. Molti gli scenari incastonati in una fotografia ora luminosa, ora umbratile. Dal panorama che si gode dal Gianicolo, quello dal Fontanone dell'Acqua Paola, a piazza dell’Orologio, da santa Sabina all’Aventino, dal Colosseo al Parco degli Acquedotti (come in “Mamma Roma”) a Fontana di Trevi e Via Veneto (come in “La dolce vita”) per chiudere nei titoli di coda con una veduta da cartolina dei ponti sul biondo Tevere. Ma, è anche la Roma dei palazzi entro i quali si muovono figure misteriose e imperscrutabili: Palazzo Sacchetti in via Giulia, Palazzo Altemps, Palazzo Braschi, Palazzo Spada. Un film, questo, che sembra voler tirare una cerniera tra quanto è stato finora cinematograficamente scritto e realizzato su Roma, ma, per una città che ha come sua principale apposizione l’epiteto di eterna, è un concetto di difficile applpicazione..
Lo chiamavano Jeeg Robot – Gabriele Mainetti – 2016
Il paragone tra Pasquino e Jeeg Robot può sembrare un po’ azzardato, e probabilmente lo è, se ci soffermiamo sul dato materiale del confronto. Ma se analizziamo l’impatto sulla credenza della gente, possiamo azzardare una similitudine tra due i due supereroi, entrambi miti e paladini di un popolo oppresso e senza volto. Il film di Mainetti, romano dell’Aventino, si incanala nella scia dei film su una Roma noir e violenta inaugurata da Romanzo Criminale di Placido ma anche dai film dello scomparso Claudio Caligari autore di una sorta di trilogia nera romana (Amore tossico (1983); L'odore della notte (1998); Non essere cattivo (2015)) per passare all’altrettanto recente Suburra (2015) di Stefano Sollima. A differenza però degli esempi citati sceglie la soluzione del sogno e del fantastico per raccontarci di una Roma devastata dalla violenza e dalla sopraffazione, contro la quale sembra potersi salvare solo evadendo nell’onirico e nell’irreale. E così, Enzo Ceccotti, un delinquentello di periferia, si trasforma nello Jeeg Robot di Tor Bella Monaca, paladino dei deboli e degli oppressi. Quelle dei due attori protagonisti (Claudio Santamaria e Luca Marinelli, presente anche in Non essere cattivo, già citato) sono facce romane – come lo erano quelle degli attori non protagonisti scelti da De Sica, o le facce degli accattoni di Pasolini; ricerca dei visi e delle fisionomie che accomuna i tre film nel loro intento “popolare”. La Roma sullo sfondo della quale si dipana la vicenda è quella della periferia degradata delle borgate sorte negli ‘anni 70 come Tor Bella Monaca (dove si svolge la maggior parte delle riprese), il centro con Campo Marzio e Castel Sant’Angelo, il Tevere sulle sue banchine, lo Stadio Olimpico e il Ponte della Musica, dove si conclude emblematicamente la storia, sospesa tra il reale e l’immaginario e dove il Pasquino/Jeeg Robot compie il suo estremo sacrificio per la città.
Caro Diario (Episodio: In Vespa) – Nanni Moretti – 1993
Non potevo non citare, per ultimo, l’episodio “In Vespa” del film di Nanni Moretti “Caro Diario”. Non solo perché – esplicitamente – protagonista è Roma, con i suoi palazzi, le sue strade, i suoi quartieri vecchi e nuovi, ma anche perché pochi registi come Nanni Moretti hanno ambientato gran parte delle proprie opere a Roma, addirittura, come nei suoi primi film, localizzando le storie a Roma Nord. Infatti, a parte La stanza del figlio, ambientato ad Ancona, tutte le altre opere di Moretti hanno la città come sfondo e scenografia. Roma con i suoi ospedali, le sue scuole, le sue piscine, le scale di quartieri come Monteverde Vecchio e i suoi terrazzi fioriti, le vie del quartiere Prati. Predilezione ed omaggio che trova la sua massima espressione nell’episodio di cui parliamo. Nanni percorre in Vespa (e rigoroso casco) e riprende, il Gianicolo, Parioli, Garbatella, il quartiere Vittoria, le Mura Aureliane dove incontra Jennifer Beals, le torri di Vigne Nuove, Casal Palocco (dove risponde ai pregi del quartiere elencati da uno dei suoi abitanti “Ma Roma trenta anni fa era bellissima”) Spinaceto (“Be' Spinaceto pensavo peggio non è per niente male.”), per finire in una lunga e lentissima scena, all’Idroscalo di Ostia, commentata dalle note di The Koln Concert di Keith Jarret, a rendere omaggio al monumento che ricorda l’eccidio di Pier Paolo Pasolini. Una sequenza, che vorresti non finisse mai.