Da ‘Fuga’ a ‘Jackie’ passando per ‘Post Mortem’: il perturbante cinema di Pablo Larraín

In un panorama filmico sempre più privo di idee e innovazione in cui imperano sequel, prequel, remake, trasposizioni da romanzi e film tratti da storie vere, imbattersi in un regista dello spessore di Pablo Larraín è un regalo senza prezzo: un po’ come avventurarsi in un emozionante viaggio in terre inesplorate. Già, perché il quasi 41enne di Santiago del Cile - ritenuto a livello internazionale la punta di diamante del nuovo cinema cileno, quello nato e sviluppatosi dopo la dittatura di Pinochet - con i suoi 7 lungometraggi ha dimostrato di aver talento da vendere. Dissacrante e poetico, verosimile e sconcertante, perturbante e splendido: questo è il cinema di Larraín, un mondo abitato da antieroi, personaggi ambigui e indimenticabili miti che si muovono all’interno di un linguaggio cinematografico originale e potentissimo.

Uomo all’apparenza schivo e poco propenso a parlare di sé e della propria infanzia, il cineasta sudamericano raramente ama apparire in video. Questa sua ritrosia nel trovarsi di fronte a tante persone ha fatto sì che, sebbene in gioventù avesse partecipato a un corso di teatro, abbia comunque optato per stare non davanti, ma dietro l’occhio della cinepresa. Nonostante sia cresciuto in un ambiente ideologicamente di destra - il padre Hernán, oltre che avvocato è senatore dell’Udi (Unione Democratica Indipendente), e la madre, Magdalena Matte, ha ricoperto il ruolo di ministro nel Governo Piñera -, i suoi lavori nulla hanno a che vedere con quella corrente politica. Anzi, il disprezzo che l’autore nutre verso Augusto Pinochet e il mondo che lo circondava lo ha spinto a dissezionare la recente Storia del suo Paese attraverso una tanto chirurgica quanto incomoda visione della passata tirannia.

Con il Golpe militare del 1973 il Cile era precipitato in un baratro di orrore, secondo il ‘Rapporto della Commissione Valech’ le vittime dirette della dittatura furono circa 40.000, più di 3000 delle quali tra morti e desaparecidos. Come in tutti i Regimi la cultura faceva paura, e per questo libri e opere d’arte vennero bruciati nelle pubbliche piazze. Eliminare le parole, e la facoltà di rivelare quanto stava accadendo, significava non avere più voce per analizzare la realtà e raccontarla: mantenere il popolo ignorante, sottomesso e soggiogato era ciò a cui Pinochet mirava. Molti furono quindi gli artisti che persero la vita in quei giorni, e chi riuscì a salvarsi fuggì verso Nazioni più sicure. Tra i registi che ripararono all’estero, per la memoria storica di quel Paese a ridosso delle Ande il documentarista Patricio Guzmán è senza dubbio una figura estremamente importante: la sua trilogia La Battaglia del Cile (La Battaglia del Cile: L'Insurrezione della Borghesia, La Battaglia del Cile: Il Potere Popolare, La Battaglia del Cile: Il Colpo di Stato), sul Governo di Salvador Allende, viene infatti ancora oggi considerata il miglior documentario cileno di tutti i tempi.

Pablo Larraín, classe 1976, ebbe però un’infanzia privilegiata che lo protesse da tutte quelle brutture. Fino ai 12 anni frequentò un collegio privato accessibile soltanto a chi poteva disporre di cifre esorbitanti per l’istruzione dei propri figli, e la famiglia Larraín/Matte faceva parte di quella èlite. Ma, non addicendosi il vivace comportamento del giovane Pablo alle ferree regole dell'istituto, il ragazzo venne mandato dalla madre a terminare gli studi presso il più democratico Colegio Francisco de Asís: e fu la sua fortuna. Sì, perché al di là di aver avuto una professoressa appassionata di cinema che durante il pranzo faceva proiettare pellicole in 16mm provenienti dal Goethe Institut (film di Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang, Werner Herzog e Wim Wenders), il futuro filmmaker poté uscire dalla campana di vetro sotto la quale era stato a lungo tenuto, e scoprire finalmente la vera faccia del Cile. Non fu facile per lui prendere atto di aver vissuto all’oscuro di quanto era successo al suo popolo, e quella cecità intenzionalmente favorita dai suoi genitori lo catapultò in un vortice di vergogna che ne segnò il definitivo passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Contrariamente a ciò che si possa pensare, il padre e la madre di Larraín ne appoggiarono però incondizionatamente ogni scelta, sia ideologica che universitaria, tanto che quando lui decise di iscriversi alla facoltà di Comunicación Audiovisual invece che a quella di Giurisprudenza, lo aiutarono economicamente permettendogli, a 21 anni, di andare a vivere da solo.

Il fatto che Larraín abbia incentrato tre delle sue opere sull’epoca buia della dittatura - Tony Manero, Post Mortem e No-I giorni dell’arcobaleno – , reinterpretandola diversamente da come gli era stata raccontata in famiglia, non deve indurre lo spettatore a pensare che il cinema sia per lui una sorta di Amleto, inteso come luogo dove poter espiare e risolvere questioni pendenti con il padre e la sua verità. No, Hernán Larraín non è un fantasma, è un uomo in carne e ossa che si confronta continuamente con il figlio Pablo. Perché allora quest’ossessione nel voler narrare il male del Cile? A suo dire: “Mi misi a fare un cinema più politico perché è da lì che sorgono le domande più interessanti. Cosa capitò in quel periodo? Come riuscimmo a farci tanto del male? Come è possibile costruire una società fondata sul risentimento tanto profondo come quello tra ideologie e classi sociali?”, (intervista rilasciata al giornalista cileno Andrew Chernin per il periodico La Tercera). Da queste parole si comprende che il suo modo di fare cinema non si basa su certezze assolute, ma sulla voglia di porre domande reali partendo da una finzione cinematografica. D’altronde, Larraín non è un documentarista né uno storiografo, ma un cineasta che, grazie al suo particolare sguardo sulla società e all’abilità di trasporlo nei propri lavori, crea opere indimenticabili e sempre innovative.

Fuga, 2006
Il suo lungometraggio d’esordio, purtroppo inedito in Italia, ha per protagonista il rapporto tra arte e follia. Eliseo Montalbán è un compositore che scrisse la partitura di Rapsodia Macabra dopo aver assistito all’assassinio della sorella avvenuto sopra un pianoforte e, convinto che la sua musica portasse la morte, bruciò gli spartiti affinché nessuno potesse più suonarli. Considerato dal padre un malato di mente, il giovane pianista verrà rinchiuso in manicomio. Ricardo Coppa, un musicista mediocre e privo di talento, si metterà sulle sue tracce per rubargli quelle note andate ormai perdute… Costato un milione di dollari e 5 anni di preparazione, il film vede come produttori Hernán e Juan de Dios Larraín, due dei fratelli del regista, e nei panni di co-sceneggiatore il cugino Hernán Rodríguez Matte: il clan si era riunito fondando la casa di produzione Fabula! Ma fu proprio a causa dei cognomi dei componenti il cast tecnico che, nonostante il gran successo di pubblico riscosso dalla pellicola - si parla di 100.000 spettatori paganti presenti nelle sale cilene - Fuga soffrì di una dura accoglienza, sia di critica che della stampa in generale. I severi attacchi verso il filmmaker furono infatti dettati più dalle sue origini familiari che da una vera analisi cinematografica. Nella complessità dei personaggi di quest’opera, che nello sviluppo del racconto presenta qualche imperfezione e ingenuità, si possono già intravedere alcuni degli elementi portanti dei lavori successivi di Larraín: comunicazione visiva e comportamenti patologicamente distruttivi dei protagonisti. Con Fuga inizierà anche la collaborazione tra il cineasta e colui che diverrà in breve il suo attore feticcio: l’insuperabile Alfredo Castro.

La trilogia sulla dittatura militare di Pinochet
Tony Manero, 2008
Dopo il deludente debutto, Pablo Larraín non si perse comunque d'animo e girò il film che avrebbe cambiato per sempre il suo futuro artistico: Tony Manero. Santiago del Cile, 1978. Raùl Peralta, un cinquantenne ossessionato dal personaggio interpretato da John Travolta nel famoso film La febbre del Sabato sera, trascorre gran parte delle sue giornate a imparare passi di danza da ripetere poi in una discoteca di periferia. Lo stato di alienazione in cui il protagonista si trova a vivere lo porterà a compiere crimini sempre più efferati… Allontanandosi drasticamente dal barocchismo di Fuga, il regista di Santiago costruisce un film lavorando in sottrazione, dove il sapiente uso della macchina a mano, le numerose inquadrature fuori fuoco, i prolungati silenzi e i dialoghi introspettivi (in alcuni casi quasi surrealisti) rappresentano la sua originale cifra stilistica. Partendo da una figura fittizia, come quella di Peralta e della sua spasmodica ricerca di identità, Larraín tratteggia a meraviglia la metafora del passato del Cile: una Nazione che nulla aveva da offrire se non violenza, bisogno di fuggirne, cinismo e smarrimento morale. Accolto con calore alla sezione Quinzaine des Réalisateurs del 61º Festival di Cannes, nonché vincitore del Torino Film Festival, Tony Manero fu venduto in decine di Paesi spianando la strada del successo sia al suo emergente autore, che al colossale Alfredo Castro.

Post Mortem, 2010
Presentato in concorso al 67º Festival di Venezia, dove suscitò un’ovazione di 6 minuti, il film racconta di Mario Cornejo (Alfredo Castro), un impiegato dell’obitorio di Santiago che durante il Golpe di Pinochet si ritroverà a fronteggiare i numerosi cadaveri portati giornalmente nel luogo in cui lavora. Nemmeno della ballerina di Burlesque, di cui Mario è segretamente innamorato, si avranno più notizie… In Post Mortem Larraín continua ad indagare sul passato del Cile attraverso le storie di figure marginali, se non addirittura borderline. Grazie a una messa in scena ancor più disadorna di quella di Tony Manero, con crudo minimalismo il tavolaccio delle autopsie oltre a rappresentare il luogo dove viene analizzato quello che sarà il futuro oscurantismo dell’intero Paese, diverrà anche l’angolo in cui il corpo di Salvador Allende perderà la sua sacralità. Ogni barlume di speranza e ottimismo sono qui spazzati via dalla valanga di apatia, mediocrità e ignavia trasudante da ogni personaggio, e la macchina da presa, con il suo occhio fisso su spazi angusti e spogli, traduce abilmente in immagini gli animi di tutti i presenti. Ecco, dunque, dove risiede la forza del cinema di Larraín: nell’esplorare i sentimenti delle persone vittime delle circostanze, gente che non sa esattamente cosa stia facendo, né il perché delle proprie azioni.

No - I giorni dell'arcobaleno, 2012
Prima pellicola cilena ad essere candidata agli Oscar come miglior film straniero - vinto poi da Amour, di Michael Haneke -, No-I giorni dell’arcobaleno, tratta da Il Plebiscito, opera teatrale inedita di Antonio Skármeta, ripercorre i 27 giorni di campagna elettorale per il referendum indetto da Pinochet allo scopo di prolungare la propria permanenza al potere. L’attore Gael García Bernal interpreta René Saavedra (personaggio ispirato al vero Eugenio García), un giovane e irriverente pubblicitario che nel 1988, a suon di spot incentrati sull’allegria e la gioia di vivere, contribuirà a liberare il Paese dalla tirannia del dittatore. Nel film, le atmosfere sono più colorate e luminose rispetto a quelle tetre dei suoi precedenti lavori, e questo poiché Larraín vuole rappresentare la rivincita del popolo e l’avvento di un futuro di speranza e felicità anche per mezzo della luce. Ciò che più colpisce in No è comunque la perfetta fusione tra messinscena e realtà, perché il geniale filmmaker, girando con l'U-matic 3:4, il medesimo supporto video che si utilizzava a fine anni ‘80, fa in modo che gli spezzoni di documentari d’epoca inseriti nell’opera si confondano magistralmente con le scene di finzione. Ultimo capitolo della trilogia sull'era del regime militare, questa pellicola ottenne il plauso unanime della critica internazionale e vinse il premio della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2012. Se si pensi che, in poco più di un lustro, Pablo Larraín è passato dall'essere considerato un viziato figlio di papà troppo vicino agli ambienti di destra, al diventare il più grande detrattore cinematografico di Pinochet, bé, verrebbe da dire… proprio buffa, la vita!

Il tris di assi
Il Club, 2015
Ciò che collega questo lavoro al tema della dittatura finora trattato da Larraín, è senza dubbio il discorso dell’impunità: tiranni a piede libero e preti che arrogano a sé il diritto di poter essere giudicati solo da Dio. Il regista cileno racconta con inclemente ferocia le vicende di un ristretto manipolo di sacerdoti peccatori. Affrontando energicamente una delle istituzioni più antiche, e forse corrotte, dei nostri tempi, Larraín dimostra ancora una volta di possedere coraggio da vendere. Vedere Il Club, Orso d’argento al Festival Internazionale del cinema di Berlino, non è fare una passeggiata salutare, tutt'altro. Spesso, per la violenza di parole e immagini, nei 97 minuti di proiezione verrà a mancare l'aria. Il linguaggio brutale, il climax via via più serrato, l’ambiente cupo, la fotografia volutamente sgranata e la totale assenza di colori brillanti si adattano perfettamente alla depravazione dei personaggi: orchi travestiti da preti. La collera sdegnata verso quel settore ecclesiastico che, invece di denunciare un sistema corrotto si affanna a tutelare la propria immagine, acceca di rabbia ogni spettatore. Una platea annichilita da una terribile verità sbattutale in faccia senza lasciare spazio alla speranza: tutti colpevoli, niente sconti a nessuno! Neppure a quanti assistono al film sul grande schermo, il senso di colpa per non aver lottato abbastanza contro qualsiasi forma di sopruso induce infatti ognuno a riconsiderare anche le proprie responsabilità. Se il sesto Comandamento recita “Non commettere atti impuri”, nelle tavole dei quattro protagonisti il numero 6 era evidentemente stato omesso. Film quindi raggelante e straordinario, inquietante e indispensabile. Splendida opera che non ha ancora smesso di far vibrare d'indignazione tutte le corde dell'anima.

Neruda, 2016
Non è sempre così facile appassionarsi a un biopic, ma quando a nascondersi dietro la macchina da presa c'è il quarantenne regista di Santiago, ecco una biografia trasformarsi magicamente in un affascinante anti-biopic. Sì, perché la libertà con cui Larraín descrive una delle più importanti figure della letteratura latino-americana contemporanea, ha dell’incredibile. Solo un cileno avrebbe potuto infatti raccontare con amore infinito le contraddizioni di un mito come Pablo Neruda: edonista, donnaiolo, perfino annoiato dal dover recitare in pubblico i suoi versi, ma sempre e comunque animato da simpatia sincera verso i più poveri. Neruda è un film politico su un poeta e al tempo stesso un’opera poetica su un politico, è un melodramma solenne, un thriller lirico, una finzione nella finzione, un gioco di scambio di ruoli e identità dove ciascun personaggio è in cerca d’autore: un lavoro cerebrale, complesso tanto nella struttura narrativa che nella forma estetica. Escluso - ingiustamente, aggiungerei - dalla short list dei titoli in corsa per una nomination agli Oscar, Neruda è la dimostrazione di quanta creatività possa celarsi dietro l’apparente freddezza del suo autore. Imperdibile.

Jackie, 2016
Ambizione e talento, che non sempre formano un buon tandem, nel caso di Larraín convivono a meraviglia: prova ne è Jackie, suo primo film “made in Hollywood”. Il regista cileno, che già in Neruda aveva stupito il pubblico per la sua abilità nel sovvertire completamente i canoni classici del cinema biografico, con il suo ultimo lavoro dà prova di possedere tutte le carte in regola per essere soprannominato ‘il Re degli anti-biopic’. Portare sul grande schermo una delle figure più amate, e al contempo odiate, dal popolo americano, implicava un rischio enorme, eppure… Eppure l'esito è sbalorditivo. Incentrata sui giorni successivi all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, l’opera di Larraín si focalizza sull'ambiguità di Jacqueline Bouvier Kennedy, il personaggio dove dolore, sicurezza, fragilità, opportunismo e glamour si incastrano come tessere di un puzzle a cui sia stato tolto l'ultimo tassello rivelatore: chi era veramente Jackie? Il mistero che avvolge la complessa personalità della First Lady fa da contraltare al mito del marito, mito da lei stessa creato. Larraín mostra infatti brillantemente agli spettatori la capacità avuta dalla futura signora Onassis nel trasformare i funerali del consorte, l'allora Presidente americano, in una immensa celebrazione nazionale. Se in Post Mortem la salma sezionata di Salvador Allende rappresentava il momento clou della narrazione, e in No gli slogan pubblicitari costituivano l’arma con cui battere Pinochet, qui, a giocare il ruolo fondamentale, sono il corpo di Kennedy trasportato in un carro funebre e il circolo mediatico voluto da Jackie: un pezzo della Storia mondiale raccontata da Larraín attraverso i suoi cadaveri eccellenti e il potere dei mass media. Vincitore del Premio Osella per la miglior sceneggiatura (Noah Oppenheim) alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Jackie non ha però conquistato nessuna delle tre statuette dorate per cui era candidato, neppure quella di miglior attrice a Natalie Portman, che con il suo Chanel rosa macchiato di sangue resterà impressa a lungo nella mente di ogni spettatore.

Fortunato chi non conosce i lavori di Pablo Larraín, perché è proprio a lui che viene ancora offerta l'opportunità di stupirsi davanti al grande schermo!