Conosciamo la redazione: i migliori film del 2018 secondo Silvia Fabbri

Un altro anno è ormai trascorso, e anche per il 2018 la Settima Arte ci ha regalato gioie, dolori, spensieratezza, allegria, brividi e soprattutto tante emozioni da poter condividere con dei perfetti sconosciuti all’interno di una sala buia. Già, perché questa è una delle tante magie del cinema: far dimenticare a noi spettatori di essere nell’oscurità, fianco a fianco con persone mai incontrate prima e nonostante ciò sentirci rilassati e partecipi di una stessa meravigliosa avventura... sempre che non si capiti vicino ai cosiddetti “chiacchieroni compulsivi”!

Comunque, a parte il fastidio provocato da qualche sgranocchiatore troppo rumoroso di pop corn, questa annata cinematografica non mi ha soddisfatto come avrei tanto voluto accadesse. Sarà forse per la continua e reiterata assenza di film italiani degni di nota – eccetto Dogman di Matteo Garrone – , per la scarsa originalità sia dei temi trattati che di sperimentazione delle opere viste, o più semplicemente perché sono di gusti difficili, fatto sta che le mie ‘pellicole’ preferite del 2018 non arrivano neppure a dieci, ma appena a sei.

Senza fare una classifica tipo hit parade, vorrei iniziare con una ‘pellicola’ che ha diviso tanto il giudizio del pubblico quanto quello della critica: Il filo nascosto, di Paul Thomas Anderson. Ambientato all’interno dell'industria della moda londinese degli anni cinquanta, il film narra l’amore tra l’affermato stilista Reynolds Woodcock e Alma, una giovane cameriera di provincia. Anticonvenzionale, intelligente, riflessivo, sensuale e travolgente, l’ottavo film del regista californiano è un pas de deux ballato sulle note più alte e impreviste della passione e della follia, una danza macabra in cui i ruoli di vittima e carnefice verranno continuamente invertiti. Si, perché Anderson non si limita a mettere in scena la tipica love story tra un artista geniale e la sua Musa: no, ciò che compie è qualcosa di molto più affascinante, scivoloso, ambiguo e sinistro. I bellissimi ed eleganti costumi che hanno assicurato a Mark Bridges un Premio Oscar, la suggestiva colonna sonora di Jonny Greenwood (il chitarrista dei Radiohead), l’atmosfera rarefatta dove le emozioni volteggiano in ogni inquadratura, e la sconvolgente ultima interpretazione di Daniel Day-Lewis, che nel giugno 2017 ha annunciato il suo ritiro dalla recitazione, sono alcuni degli elementi che, a mio parere, rendono Il filo nascosto uno tra i lavori più interessanti della stagione 2018.

Altro film imperdibile è Un sogno chiamato Florida, di Sean Baker. Il regista statunitense si è qui affidato all’utilizzo di camera a mano e pellicola 35 mm per dirigere un’opera potente e mai banale che racconta, dal punto di vista dei bambini, una storia di degrado senza apparente via di scampo. Con questa toccante rappresentazione dell’altra faccia dell’America, Sean Baker continua la sua personale indagine sulla sconfitta dell’american dream: sfocato e lontano miraggio che ha trasformato un gran numero di persone in un esercito di fantasmi costretti a muoversi ai bordi dell’opulenta e contraddittoria nazione a stelle e strisce. Privo di pietismi, e grazie a una buona dose di sana allegria, Un sogno chiamato Florida non si scorda facilmente, come d’altronde riuscirà difficile dimenticarsi dei suoi piccoli protagonisti e dell’immensa bravura di Willem Dafoe.

E dopo aver citato due film realizzati da registi noti ai più, passo con piacere a uno strepitoso tris di opere prime: Estate 1993 di Carla Simón, Hereditary: Le radici del male di Ari AsterBroken Mirrors di Imri Matalon e Aviad Givon. Estate 1993 è un viaggio commovente che si snoda tra la solitudine, lo smarrimento e il conflitto di una bambina che combatte contro il dolore interiore provocato dalla perdita dei genitori. La Simón mette in scena il difficile e amaro momento di transito in cui la morte passa da uno stato astratto, nebuloso e inconsistente, a uno concreto, nitido e inappellabile, e lo fa senza mai scivolare nel melodramma, anzi, con una narrazione talmente asciutta e priva di infiocchettature da avermi lasciata completamente sbigottita. La seconda pellicola è invece un inedito, per quanto mi riguarda, poiché si tratta di un horror, genere a cui non sono particolarmente affezionata, eppure… Eppure Hereditary merita di essere assolutamente visto, perché è un film straordinariamente insano e straniante che, pur rievocando alcuni classici degli anni ‘60 e ‘70 - Rosemary's Baby di Roman Polanski (1968) e L’esorcista di William Friedkin (1973) –, è riuscito in ogni caso a scrollarsi di dosso i fin troppo abusati cliché legati al terrore, regalandomi così 127 minuti di perfetta visione maledetta e perturbante. A concludere la triade è Broken Mirrors, presentato ad Alice nella città - sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma - in cui il pregio del regista sta nell'aver utilizzato un racconto di formazione incentrato su una storia intima e personale per analizzare alcuni dei limiti della moderna società israeliana, limiti ascrivibili alle tradizioni del passato, quali i temi del peccato, dell’espiazione della colpa e del perdono. Una magnifica opera d’esordio, rigorosa, fresca e sincera che a distanza di mesi ancora mi ‘frulla nel cervello’.

A conclusione di questa shortlist dei miei preferiti non poteva mancare un documentario: Caravaggio: l’Anima e il Sangue, di Jesus Garces Lambert, 90 minuti di totale immersione nell’Io caravaggesco. Girato in 8K, e quindi ad altissima risoluzione, il lungometraggio del regista messicano è una delle proiezioni più emozionanti a cui abbia mai assistito: un lavoro stupendo che, con l’utilizzo del formato Cinemascope 2:40, oltre a un trattamento della luce effettuato in post produzione, raggiunge uno strabiliante risultato visivo. Ammirare i capolavori di Michelangelo Merisi - uomo che ha trasformato la nerezza dei suoi demoni interiori in luce divina e al tempo stesso maledettamente terrena – e avere la netta sensazione che la materia pittorica sembri farsi viva, dandomi una percezione quasi tattile e tridimensionale dei dipinti stessi, è un’esperienza indimenticabile. Se a tutto ciò si aggiunge che Lambert, rendendo il suo documentario estremamente moderno ha avuto il coraggio di prendersi un bell’azzardo narrativo, beh, per chi lo avesse perso in sala, il mio consiglio è quello di recuperarlo in ogni modo!

Buon anno nuovo, allora, e lunga vita alla Settima Arte, miele e delizia di noi malati di Cinema

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