Conosciamo la redazione: i migliori film del 2018 secondo Elena Pedoto - Best Four + Menzione Speciale
Un anno in viaggio attraverso il complesso concetto di famiglia e nelle guerre fredde dei sentimenti
Il 2018 è stata un’annata particolare per il cinema perché, per tanti versi, la settima arte sta affrontando una rivoluzione endemica che proprio lungo i dodici mesi di quest’anno appena trascorso sembra essersi ampiamente manifestata. Primo dei grandi cambiamenti di quest’anno è stato l’avvento di Netflix all’interno delle manifestazioni cinematografiche, la crescita del suo potere contrattuale e produttivo legato a una presenza destinata a cambiare molte cose nella produzione e distribuzione dei film. Proprio Netflix con la sua volontà di accaparrarsi una fetta importante di cinema d’autore ha infatti determinato un paio di grandi conseguenze nelle fila dei festival internazionali di maggior richiamo. Il festival di Cannes che ha volutamente snobbato la piattaforma streaming più influente del momento ha infatti perso più di un punto sul suo cartellone festivaliero, mentre Venezia che ha deciso saggiamente di inglobare le produzioni firmate Netflix ha invece giocato al rialzo, e il suo cartellone festivaliero di quest’anno si è rivelato degno di nota, tanto più che il film Roma di Alfonso Cuaron, prodotto da Netflix e vincitore del Leone d’Oro 2018, è stato non solo oggetto di polemiche e dibattiti, ma si è rivelato nel bene e nel male il film di cui si è più parlato in questi ultimi mesi, e che ha catalizzato interessi e profitti ancora maggiori attorno a un mondo che come dicevamo appunto in apertura è profondamente destinato a mutare nei prossimi anni. Ma quali sono i film che in quest’annata comunque ricca si sono aggiudicati le posizioni top? Per quest’anno abbiamo stilato una top Four che racchiude delle opere davvero imperdibili, acclamate dalla critica, e dal pubblico più cinefilo e sensibile al fascino di un cinema d’autore di indubbia qualità.
Iniziamo anche quest’anno con una sorta di off topic, ma che è di fatto una menzione speciale a un’operazione culturale (e di marketing) di notevole livello, e che ha dato vita alla prima parte della serie tv L’amica geniale, tratta dal primo volume della quadrilogia best seller di Elena Ferrante. Una serie (coprodotta da Rai Fiction, HBO, TIMvision, Wildside e Fandango) che ha davvero stupito per la sua altissima qualità. La regia incalzante ma sobria di Saverio Costanzo, un’accuratezza nel casting e nella scenografia, sommati alla potenza della storia di cui si narra, sono infatti riusciti nell’impresa di rendere più che apprezzabile l’adattamento dell’opera della Ferrante. Una sfida vinta dunque non solo contro l’assioma secondo cui più un’opera scritta è di valore più e difficile riprodurne fedelmente l’anima, ma anche nel coinvolgimento del grande pubblico, che ha premiato la serie con risultati d’ascolto davvero impensabili. E allora è doveroso fare una menzione speciale a questo prodotto televisivo con qualità di livello cinematografico, e che vanta il grande pregio di avvicinare letteratura e cinema al pubblico mainestream, e di farlo – e non capita spesso – con una consapevolezza e un uso dei mezzi a disposizione davvero ammirevole. E si lavora già alla seconda attesissima stagione!
Quarto di questa top Four dei migliori film 2018 è il nostrano Dogman di Matteo Garrone. Un film che ha spiazzato per la sua capacità di rivisitare una cruenta storia di cronaca (il cosiddetto delitto del canaro della Magliana) per farne una parabola toccante e per molti versi inquietante dove il buono, la vittima sacrificale muta per necessità e reazione esasperata in carnefice. La straordinaria forza del film risiede per buona parte nella capacità del protagonista Marcello Fonte (pluripremiato per questo ruolo, sin dal Premio Miglior attore proprio al festival di Cannes) di incarnare alla perfezione le rivoluzioni interiori di questa parabola, e per un’altra buona parte nella bravura di Garrone nel portare a galla i sentimenti contrastanti di chi, non abituato a reagire, si ritrova infine costretto a operare una rivoluzione interiore, a “violentarsi” per cambiare e sopravvivere al mondo circostante. Dal degrado di un mondo de-umanizzato Garrone fa emergere la multivalenza dei sentimenti, e i grandi paradossi dell’esistenza umana. Un film di un realismo “silente” e crudissimo che ha avuto il plauso della critica internazionale ma anche l’apprezzamento del grande pubblico. E anche se non è entrato nella shortlist dei titoli in corsa all’oscar come Miglior Film Straniero, è un film che già di suo porta a casa nostra una grande vittoria di qualità e riconoscimenti multipli nel panorama del cinema d’autore internazionale.
Vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2018, e osannato dalla critica, Un affare di famiglia (Manbiki kazoku - Shoplifters titolo originale) del giapponese Kore'eda Hirokazu è un’opera toccante e poetica che abbraccia e amplia il concetto di famiglia a una dimensione capace di inglobare l’affetto e il prendersi cura, anche quando non originati da legami di sangue. Un vivere alla giornata che è anche prerogativa dei sentimenti, e che in quanto tale rende l’affetto super partes, incapace di giudicare ed essere giudicato, sottomesso solo alla logica del chi c’è e chi si prende cura. Un’opera che trova la summa della filmografia del regista sia in termini di contenuti quanto in termini artistici e che evidenzia una delle tematiche più importanti dell’annata di cinema appena trascorsa, ovvero proprio il tema della famiglia come concetto dinamico attorno al quale muoversi più che come organo statico nel quale restare condizionati. Una tematica che è al centro anche del nostro secondo amatissimo posto.
Se ne è parlato, se ne è discusso, ha avuto fiumi di estimatori e in seconda battuta anche una crescente schiera di denigratori. Stiamo parlando di Roma del messicano Alfonso Cuaron, prodotto da Netflix e vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia 2018. In riferimento al quartiere di Città del Messico del titolo (Roma, appunto) e sulla base di un materiale prettamente autobiografico, Cuaron traccia una linea sociale e politica attraverso una realtà borghese e messicana degli anni ‘70, osservata dagli occhi miti di una domestica tuttofare, Cleo. Un quadro in movimento che però non si ferma a raccontare differenze e paradossi tra ricchi e poveri, “padroni e servi”, ma che amplia poi il suo sguardo per disegnare un’interessante riflessione sulla famiglia, sulla sua capacità di mutare e rigenerarsi, di cambiare forma in base alle necessità. Ed ecco quindi che la figura della domestica Cleo (una bravissima Yalitza Aparicio) assume un simbolismo unico, incarnando - all’interno di un film volutamente universale e simbolico - forma e cuore della resilienza e dell’amore tout court. Un film che abbraccia la vita senza farne realmente parte, che si rifugia poco alla volta sulla sponda di quel mare che può esser placido o in tempesta, e con cui ognuno di noi prima o dopo deve fare i conti. Un film bellissimo in cui forma e contenuti si sposano a meraviglia.
Primissimo posto di questa Top Four di altissima qualità e dalla sensibile cifra autoriale va al bellissimo Cold War del polacco Pawe? Aleksander Pawlikowski (già Premio Oscar con Ida nel 2015). Una storia d’amore ante litteram, e uno dei film più belli e struggenti di sempre, Cold War traccia la via crucis di una passione e un amore travolgenti nella cornice di un mondo politico e sociale che attraversa dieci lunghi anni di Guerra Fredda, totalitario e autoritario, tristemente espropriato del suo calore. Desaturato come la bellissima fotografia in bianco e nero con cui si manifesta, l’amore tra il musicista Viktor e la ballerina Zula sperimenta una guerra fredda dei sentimenti proprio come il mondo in cui si muovono, passando di continuo da passione cocente a degli incolmabili fuori synch emotivi. In un circolo vizioso d’amore che non sembra mai trovare la sua forma perfetta - “nè con te nè senza di te”, Cold War fonde microstoria e macrostoria in una fotografia perfetta, argomentando con semplicità narrativa ma grande profondità riflessiva come i tempi - sociali, politici, ambientali - possano condizionare le singole vite, i singoli amori e le singole relazioni che compongono una società. Facendo delle sue peculiarità stilistiche e narrative una cifra universale e attuale, Cold War disegna dunque la parte più bella e cruenta di un’esistenza, mettendo a contrasto il bianco e il nero, tutto ciò che potrebbe essere e forse non sarà mai, per un motivo preciso o forse anche per nessun motivo. L’estrema volatilità della vita, così come delle emozioni che diventano film, in una tale compostezza narrativa e sintesi temporale (poco meno di 90 minuti) che ne fanno senza ombra di dubbio un’opera capolavoro, anche se non tanto facilmente fruibile.
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