Conosciamo la redazione. 2010-2019, un decennio di Cinema: i migliori film secondo Silvia Fabbri
Difficile, se non quasi impossibile, fare una selezione di quei film che in quest’ultimo decennio hanno suscitato in me stupore, ammirazione e, perché no, anche qualche lacrimuccia. Per una volta, abbandonando le vesti di “addetta ai lavori”, vorrei immergermi nel magnifico e fantastico ruolo di “spettatrice”, dove le sensazioni provate a fine proiezione non vengono minate da lunghe disamine tecniche o da interferenze pseudo-analitiche. Partendo da questa piccola ma necessaria premessa, ho quindi deciso di condividere con voi quelle opere cinematografiche che più di altre rivedrei volentieri.
Il 2010 è stato un anno triste per il cinema italiano, e non tanto per le mediocri produzioni nostrane, quanto, e soprattutto, per l’immensa perdita di un “mostro sacro” quale Mario Monicelli. Ma, tralasciando la malinconia e volgendo lo sguardo oltre confine, anche se La prima cosa bella di Paolo Virzì meriterebbe una seconda visione, direi che i lungometraggi da me più apprezzati sono essenzialmente due: Shutter Island di Martin Scorsese, e Inception di Christopher Nolan. Penserete voi: “Ecco, ci mancava la fan di Leonardo Di Caprio...”. Nulla di più errato, o almeno per quei tempi. Sì, perché ad essere sincera l’attore americano non mi aveva ancora convinta del tutto, oltre al fatto che l’unica stella della settima arte di cui mi reputo accanita sostenitrice, e mai fan, è la divina Bette Davis! Comunque, a parte le digressioni personali, Shutter Island mi ha inchiodata alla poltroncina rossa dalla prima all’ultima sequenza. L’empatia che mi ha legata al protagonista è uno degli aspetti più interessanti di questo thriller psicologico, in cui il filmmaker statunitense accompagna lo spettatore in un tourbillon di dubbi, incertezze e incubi deliranti per raccontare l’intima lotta di un uomo alla disperata ricerca di cancellare gli orrori del passato: 138 minuti di “pellicola” che per mesi ha monopolizzato i discorsi nelle cene con amici. Almeno fino all’arrivo nelle sale del film di Nolan… Inception, straordinario triplo salto carpiato tra sogno, realtà e livelli narrativi, uno di quei lavori in cui mi sono più volte (s)persa e immediatamente dopo ritrovata. Fare lo slalom tra astrazione e concretezza avrebbe potuto procurarmi quel classico movimento sussultorio/ondulatorio che inevitabilmente mi colpisce durante la visione di film a me ostici, e invece no, la mia ben nota scarsa resistenza a voli pindarici cinematografici di lunga durata si è trasformata in granitica fermezza: 2 ore e mezza di puro immobilismo da “estasi” filmica.
Del 2011 ricordo con piacere Carnage di Roman Polanski, che mette magistralmente in scena un gioco al massacro fra due coppie di genitori che si incontrano per risolvere una lite tra i figli dodicenni. L’iniziale ipocrisia dei personaggi, e la successiva volgarità dagli stessi attribuita sempre agli altrui - e mai ai propri - comportamenti, mi ha portata a rivivere spiacevoli situazioni sperimentate in passato, e devo ammettere che senz’ombra di dubbio quest’opera mi ha affascinata e al contempo destabilizzata: ma la “carneficina” - traduzione del termine carnage - è davvero l’unica alternativa valida per dirimere determinate dinamiche tossiche fra conoscenti? Di dinamiche tossiche, ma di tutt’altro genere, ci parla anche Darren Aronofsky nel suo imperdibile Il cigno nero, in cui una bravissima Natalie Portman impersona una fragile e ambiziosa ballerina classica: una giovane donna soggiogata da una madre ossessiva e frustrata. L’enigma del doppio, la spirale della follia, la scoperta della sessualità e l’incapacità di distinguere l’irrealtà dalla realtà sono gli ingredienti base su cui danza la protagonista: io, da spettatrice, ho danzato con lei in ogni dolore, successo, gioia, sconfitta e paura. Già, quella paura interiore che può affliggere chiunque, addirittura un Papa, proprio come avviene in Habemus Papam di Nanni Moretti. L’umiltà e la consapevolezza di non essere in grado di servire Dio è una “nobile paura” con cui dovrà fare i conti il Papa morettiano interpretato dal perfetto Michel Piccoli: nessun uomo è infallibile, neppure il Capo della Chiesa Cattolica. Un film che mi ha fatto ridere, commuovere e riflettere a lungo sulla solitudine dell’essere umano, e sui suoi limiti.
Sul 2012 vado liscia come l’olio: Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore di Wes Anderson, e Vita di Pi di Ang Lee. Inutile girarci intorno, i film di Wes Anderson rimangono il mio morbido rifugio in quel freddo e sterile panorama cinematografico che in maniera random inquina la settima arte. La sua genialità narrativa unita all’incredibile gusto visivo, gli indimenticabili personaggi e le loro buffe e commoventi azioni, che in Moonrise Kingdom cercano scampo da un mondo adulto privo di fantasia e schiacciato da regole assurde, sono un vero toccasana contro qualsiasi mal di pancia da film indigesto. Vita di Pi ha invece il grande pregio di avermi fatto versare lacrime dolci e al contempo avermi lasciata senza fiato. Sì, ero in apnea di fronte alla magia che Ang Lee è riuscito a diffondere nell’intera sala, alla profondità della metafora della vita, alla struggente malinconia dell’infanzia e dei racconti d’avventura ad essa connessi.
Cari lettori, sono arrivata soltanto al 2013, e se continuo di questo passo scriverò un’enciclopedia. Dunque, nonostante il mio disappunto, mi rendo conto che in questo viaggio dovrò lasciare nel cassetto diversi film a me cari, ma il web, ahimè, impone tempi brevi di lettura e cercherò quindi di adeguarmi. Tra le numerose opere degne di nota di quest’anno ce n’è una che sovrasta di gran lunga le altre, ed è La grande bellezza di Paolo Sorrentino. La rappresentazione misera e grottesca che il nostro regista dà della società italiana è sconvolgente. La bassezza degli esseri umani, parenti lontani di quegli stessi uomini che nel passato avevano saputo creare tanta bellezza artistica, è qui dipinta senza pietà alcuna. Burattini e maschere carnevalesche che scodinzolano dietro un demiurgo ormai consapevole della propria inutile grandezza, figure meschine e comprimarie della loro stessa esistenza che si affannano in cerca di un posto all’ombra dei “potenti”. Uscita dalla sala ero in preda a un caleidoscopio di emozioni: sconforto, rabbia, consapevolezza, commozione e tanta, tantissima gratitudine per Paolo Sorrentino e il suo lucido, seppur impietoso, sguardo d’autore. Sì, sì, lo so, nel 2013 hanno preso vita anche The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (uscito in Italia nel 2014) e La vita di Adele di Abdellatif Kechiche, ma questa è un’altra storia…
Il 2014 è per me molto importante, perché? Perché escono Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, Interstellar di Christopher Nolan, e Mommy di Xavier Dolan. Del fantastico effetto che Anderson esercita sulla mia psiche ne abbiamo già parlato, figuratevi quindi la mia felicità nel vedere Grand Budapest Hotel, dove le avventure del protagonista, e co-protagonista, si susseguono a ritmo forsennato: una corsa sfrenata sulle ali della fantasia per narrare, come lui solo sa fare, un’Europa con i suoi ferrei confini da superare e le sue tante discriminazioni razziali da combattere. E i confini, ma questa volta al limite del metafisico, sono al centro di Interstellar, dove lo spettatore oltrepasserà le barriere dimensionali note agli esseri umani. Inutile dire che serve un alto livello di concentrazione per assistere a questo film, ma una volta entrati nel giusto mood, beh, farete fatica ad uscirne. Come d’altronde faticherete a sfuggire al magnetismo di Steve, l'adolescente tirannico furiosamente innamorato della madre, prepotente, petulante e incontrollabile che appare in Mommy. L’allora 25enne Dolan, qui al suo quinto film, mi ha regalato il più grande pianto liberatorio mai fatto all’interno di una sala cinematografica, e il bello è che quel mio sgorgare di lacrime si è rivelato uno “sfogo” condiviso con la quasi totalità della platea. Ovunque mi girassi vedevo infatti fazzolettini stropicciati, occhi lucidi e sguardi colmi di comprensione: ecco la magia del cinema, condividere emozioni, anche quelle ritenute imbarazzanti, con dei perfetti sconosciuti.
Il 2015 rappresenta il giro di boa di questa incompleta ma onesta classifica personale. Due sono i film che non mi stancherei mai di suggerire agli amici, il primo è Dio esiste e vive a Bruxelles di Jaco Van Dormael, e il secondo Francofonia di Alexandre Sokurov. Un Dio accidioso, perfido, ubriacone e dispotico che è la rappresentazione più surreale del Creatore che abbia mai visto al cinema. Ironia, poesia e totale mancanza di cattivo gusto sono gli elementi che hanno reso Dio esiste e vive a Bruxelles una tra le mie opere preferite. La musica che diventa interiorità, la capacità di trasformare in immagine qualsiasi idea o sogno dei protagonisti: in sintesi, una black comedy con una creatività visiva fuori dal comune. Immagini visionarie e documentaristiche sono invece al centro di Francofonia, dove il regista russo esplora il rapporto esistente tra arte, storia e potere, e lo fa sprezzante delle regole imposte dal mercato, realizzando un lavoro complesso ma imperdibile, un grido d’aiuto rivolto all’intera umanità. Filosofico, profondo, struggente, stimolante e ipnotico, Francofonia è un capolavoro assoluto, un inno all’arte e a quegli uomini che per essa tanto si sono prodigati.
Il 2016 è l’anno di un tris di film di registi con i fiocchi: The Hateful Eight di Quentin Tarantino (2015), Neruda di Pablo Larraín e Io, Daniel Blake di Ken Loach. Sarà che ho avuto la fortuna di vedere “l’odiato ottavo” in versione 70mm nel mitico teatro di posa numero 5 di Cinecittà, sarà che lo schermo misurava 21 metri di lunghezza x 8 metri di altezza, sarà che la mia stima per il regista di Pulp Fiction potrebbe portarmi a esprimere un giudizio parziale… Insomma, sarà quel che sarà, fatto sta che The Hateful Eight rientra a pieno titolo nei miei film del decennio. Costruita in un crescendo di tensione, quasi fosse un ordigno a miccia lunga, l’opera di Tarantino l'ho gustata in ogni piccolo dettaglio: l’impeccabile sceneggiatura, la brillantezza dei colori, i sagaci e ironici dialoghi tra personaggi, la limpida fotografia e, dulcis in fundo, la musica di Ennio Morricone. Di tutt’altro tipo è invece il lavoro di Larraín, Neruda è infatti al tempo stesso un film politico su un poeta e un’opera poetica su un politico, un melodramma solenne, un thriller lirico, una finzione nella finzione, un gioco di scambio di ruoli e identità dove ogni personaggio è in cerca d’autore: un lavoro cerebrale complesso tanto nella struttura narrativa quanto nella forma estetica. And last but not least, Io, Daniel Blake: un’aspra condanna nei confronti delle disuguaglianze raccontata senza filtri, una cristallina, ferrea denuncia verso quei Governi che impunemente ignorano i loro cittadini più deboli. Loach mostra infatti al pubblico come si possa morire per la lentezza della burocrazia, o per l’assenza del cosiddetto welfare, riuscendo a rivestire di poesia un dramma di commovente devastazione.
Il 2017 si apre all’insegna dell’originalità, dote che apprezzo ogni anno di più, con Scappa - Get Out, opera prima di Jordan Peele, e L'altro volto della speranza di Aki Kaurismäki. Il primo titolo, thriller cosparso di elementi del terrore, è perturbante, spaventoso e girato maledettamente bene. Peele vi ha rappresentato in modo diretto e senza remore anche l’ipocrisia razziale che dimora nelle classi liberali statunitensi, il tutto in un prodotto semi horror: semplicemente geniale. Il secondo narra una storia di emarginazione tesa a mandare in frantumi quei tipici clichè europei in cui i profughi sono visti o come vittime, o come arroganti immigrati clandestini: un universo di paradossali antieroi, un’umanità strampalata che non si arrende mai, neppure al destino più beffardo.
Al 2018 arriviamo con una coppia di film a cui sono particolarmente affezionata, Un sogno chiamato Florida di Sean Baker, e Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson. Utilizzando una camera a mano e pellicola 35 mm, Baker realizza un’opera potente e mai banale che racconta, dal punto di vista di alcuni bambini, una storia di degrado senza apparente via di scampo. L’american dream che dunque si infrange quando si guarda all’altra faccia dello Stato a stelle e strisce: un pianeta popolato da un esercito di fantasmi che vivono ai bordi dell’opulenta e contraddittoria America. Ecco, Un sogno chiamato Florida è un lungometraggio che mi ha lasciato dentro per giorni uno strano senso di impotenza e inadeguatezza: un film che fa riflettere sulle ingiustizie a cui da troppo tempo non diamo più il giusto peso. Il filo nascosto, ambientato all’interno dell'industria della moda londinese degli anni cinquanta, è invece una danza macabra ballata sulle note più alte e impreviste della passione e della follia, un passo a due in cui i ruoli di vittima e carnefice verranno continuamente invertiti. L’amore tra l’affermato stilista Reynolds Woodcock e Alma, una giovane cameriera di provincia, diviene il centro di un racconto scivoloso, ambiguo e sinistro: ultima interpretazione cinematografica di Daniel Day-Lewis, come potrei non essere affezionata a quest’opera? Ora, è vero che poco sopra ho scritto “coppia di film”, ma non me ne vorrete se citerò anche L'isola dei cani di Wes Anderson…
Atterrata di volata al 2019, la mia incursione nell’ultimo decennio filmico finisce con The Irishman di Martin Scorsese, Joker di Todd Phillips e C’era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino. The Irishman è una prova d’attore per tre giganti incontrastati quali Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci. La mano di Scorsese è quella di sempre, inflessibile, magnifica e libera. Sì, libera di perdersi in favolosi primi piani e affascinanti piani sequenza: 210 minuti di cinema “classico” e dirompente. Di classico non ha invece nulla il Joker interpretato da Joaquin Phoenix, e, aggiungerei io, per fortuna. Phillips prende a prestito uno fra i villain più noti agli spettatori e lo spoglia di quell’aura ormai stanca e stancante da cinecomic, trasformandolo in una straordinaria e contemporanea figura simbolo dell’emarginazione. Un viaggio orrorifico nella mente di un uomo piegato sotto il peso della cattiveria umana e minato dalla malattia. Realtà e finzione convivono qui in un cortocircuito spiazzante e magnificamente disturbante: un’opera da Oscar con sopra inciso il nome Phoenix. Sono giunta all’ultimo film, quello di Tarantino, che è il meno tarantiniano ma il più intimo che il regista abbia mai realizzato. C’era una volta a… Hollywood è un’ode spassionata alla settima arte, una rivincita dei vinti sui vincitori, una falsa verità che restituisce giustizia alle vittime… E tutto ciò dove potrebbe mai avvenire, se non al cinema?
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