Almodóvar e il suo universo femminino

Giovani o anziane, brutte o belle, con i capelli lunghi o corti, insopportabili o simpatiche, madri o figlie, totalmente pazze o lucidissime, malate o in gravidanza, vive o morte… Pedro Almodóvar, il cantore del pianeta donna, torna a Cannes 2016 con un’ennesima vicenda legata al gentil sesso: Julieta .

Le figure femminili sono sempre state di vitale importanza nella storia del cinema, ma, con l’arrivo di Almodóvar, la visione stereotipata dell’universo femminino cambia drasticamente. Per il regista spagnolo, infatti, le protagoniste non sono solamente bei visetti su corpi ben fatti o appendici dell’eroe maschile, ma diventano a loro volta eroine e padrone del proprio destino, relegando  l’uomo al ruolo secondario di semplice ornamento.

Ma chi è Pedro Almodóvar? Da dove nasce la sua passione per le donne?
Nato nel 1949  – dieci anni dopo l’avvento al potere del dittatore Francisco Franco – in una povera famiglia di mulattieri a Calzada de Calatrava, paesino agricolo de La Mancha, Pedro Almodóvar Caballero cresce circondato dall’affetto materno e di quello delle sorelle e delle tante vicine di casa. Proviamo ora a immaginare il vissuto del futuro regista in quegli anni. Le infinite chiacchiere di giovani donne, i giochi con le bambine e la loro furbizia, la femminilità dei gesti quotidiani di cui era spettatore: un universo a tinte forti, un mondo avvolgente che per osmosi penetrava nella sua pelle fino a raggiungergli l’anima.

All’età di otto anni si trasferisce con i genitori in un villaggio dell’Extremadura, dove, oltre a lavorare ad una pompa di benzina e scrivere lettere a pagamento, insegna a leggere e far di conto ai tanti analfabeti del paese. E’ in quel periodo che inizia a raccontare storie: “Quando ho cominciato a vedere dei film, alla mie sorelle piaceva molto che io glieli raccontassi, anche se li avevamo visti insieme. A loro piaceva il mio modo di raccontarli. Sviluppavo le storie, le deformavo completamente. Il mio racconto era una sorta di ricreazione. Fin dall’infanzia, quindi, sono stato un affabulatore. E questo mi ha portato in modo naturale all’immagine…”. Compiuti i dieci anni, lo attende però un drastico cambiamento, dovrà abbandonare la magica e complessa atmosfera femminile per immergersi nella palude maschile del collegio dei Salesiani, dove controvoglia completerà la sua istruzione. Questa esperienza lo segnerà per sempre, facendo  germogliare in lui quel forte anticlericalismo che si ritroverà in molte sue opere: una su tutte, La Mala Educación.

Nel 1968 parte per Madrid con l’idea di iscriversi all’Escuela Oficial de Cine, ma, a causa di una legge promulgata da Franco che imponeva l’interruzione dei corsi dedicati alla settima arte, avrà la brutta sorpresa di trovarla chiusa. In quel periodo lavorerà, prima come ambulante al Mercato delle Pulci di El Rasto, poi come impiegato presso la Compagnia Telefonica Nazionale, dove resterà per 12 anni. Ma la Spagna sta mutando pelle, la dittatura è infatti agli sgoccioli e il fermento culturale, ben rappresentato dalla famosa movida, sarà l’humus in cui il regista manchego svilupperà il suo eclettismo artistico: teatro, musica, scrittura… e cinema.

Dopo aver girato ben dieci “corti”, nel 1978 esordisce con il suo primo lungometraggio: Folle... folle... fólleme Tim, un film eccessivamente sopra le righe interpretato da Carmen Maura, destinata ad incarnare la musa ispiratrice dell’Almodóvar anni ’80.

Già, perché al pari di Hitchcock, anche lo spagnolo ama circondarsi sempre delle stesse attrici: Carmen Maura, Victoria Abril, Marina Paredes, Penelope Cruz e Rossy de Palma, per i suoi straordinari lineamenti asimmetrici soprannominata "dama Picasso". In questa tavolozza di solo  rosa spicca però  uno schizzo azzurro, l’attore feticcio Antonio Banderas.

Almodóvar possiede la straordinaria abilità di tratteggiare figure estremamente definite e complesse, cariche di intensità e trasporto. Le sue protagoniste, racchiudendo in sé un cosmo di emozioni, raccontano molto più di ciò che l’occhio può vedere in superficie. Grottesco, controverso, trasgressivo, provocatorio, colorato e profondamente vitale: questo, il cinema dello stravagante regista, un arcobaleno di esistenze femminili che amano, soffrono, lottano, stuzzicano e comandano…

Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, 1980, e Labirinto di passioni, 1982, si possono considerare un manifesto della movida madrileña, dove la libertà conquistata nel post-franchismo è messa in scena attraverso donne emancipate che si abbandonano finalmente alle passioni. Lesbiche, ninfomani, ragazze vendicative e al tempo stesso tenere: eccola, l’avanzata delle truppe almodovariane che arriva come un tornado a spazzar via i tabù della borghesia. Sì, perché il manchego, prediligendo il mondo degli emarginati, costruisce storie che invadono e infastidiscono la vita dei benpensanti. L'indiscreto fascino del peccato, 1983, Che ho fatto io per meritare questo?, 1984, Matador, 1986, e La Legge del Desiderio, 1987, trattano con humor argomenti tanto scomodi quanto morbosamente intriganti, quali: omosessualità, prostituzione, corruzione di poliziotti, morte, droga e adulterio.

L’aver fondato nel 1985 la Casa di Produzione El Deseo – ad oggi una delle più importanti dell'intera Spagna –offre ad Almodóvar la possibilità di non dover sottostare a nessuna forma di censura o restrizione registica, consentendogli, nel 1988, di dare sfogo a tutta la sua creatività con la realizzazione di Donne sull'orlo di una crisi di nervi, variopinto affresco del nuovo modello femminile. Gonne attillate, tacchi vertiginosi, unghie laccate rosso fuoco, bigiotteria al limite del kitsch: così si presentano le protagoniste del film, moderne guerriere che dietro l’apparenza di deboli bambole celano una forza incredibile, bellicose amazzoni pronte a disintegrare l’io maschile a colpi di logica… altro che isterismo! Ma le mille sfaccettature di donna, che come in un diamante ne compongono il prezioso disegno, nelle mani dello spagnolo si tramutano in straordinari melodrammi: la vita, in fondo, non è forse tutta un melodramma?

La dichiarata omosessualità di Almodóvar ha certamente contribuito ad esasperare sia la sua sana ossessione in rosa che l’immancabile mania del “doppio”: tutti i suoi protagonisti sono infatti donne, e quanti non lo sono, vorrebbero diventarlo. Ma il cineasta spagnolo oltrepassa i semplici travestimenti (Miguel Bosé in Tacchi a spillo, 1991) per inserire la femminilità in corpi e personaggi dall’aspetto palesemente maschile. Uomini che piangono frequentemente, o cantano con voci soavi e delicate, si contrappongono a donne dominatrici che hanno rubato loro la virilità: Lydia, la torera di Parla con Lei, li defrauda perfino della più classica delle loro esibizioni, la corrida.

Siamo negli anni ’90 e Pedro è ormai pronto a cambiare registro. Nei suoi lavori, pur conservando integra la tragicomica eccentricità dei personaggi, inizia ad abbandonare quei ritmi forsennati e quegli elementi barocchi che tanto avevano contraddistinto la sua cinematografia: la mutazione è in atto… eccettuata, naturalmente, la sua predilezione per le donne! Ne Il fiore del mio segreto, 1995, accantonando gli eccessi e lavorando di sottrazione, il regista di Calzada de Calatrava rivela il suo lato più sensibile e drammatico. Il film parla di quel processo doloroso attraverso il quale un individuo, trasformatosi nel padrone della propria solitudine, non può più essere altro che una delle sue tante muse! In Carne tremula, 1997, con Francesca Neri, Almodóvar esprime nuovamente l’impossibilità di resistere alle passioni, ma sarà solo nel 1999 che verrà infine consacrato a fare parte dell’olimpo cinematografico. In quell’anno esce infatti Tutto su mia madre, un capolavoro dove le donne, ognuna con le proprie particolarità e difetti, vengono celebrate come indiscusse protagoniste di quel meraviglioso spettacolo che è la vita: “A Bette Davis, Gena Rowlands, Romy Schneider… A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre”, questa la dedica con cui il regista chiude il film.

Le successive opere, Parla con lei, 2002, e La mala educación, 2004, sono le uniche che vedono   la galassia rosa temporaneamente messa da parte. Nel 2006, con Volver – un omaggio alle dive  italiane  –  il suo cinema torna infatti a coniugarsi al femminile: tre generazioni di donne sul bordo dell’abisso pronte a sfruttare, come migliori armi possedute, menzogna e strategia.

Se Gli abbracci spezzati, 2009, non accolto positivamente a Cannes e stroncato dalla stampa spagnola, incrina i rapporti tra il regista e il mondo della critica cinematografica, La pelle che abito, 2011, non migliorerà la situazione. Nel 2013, ne Gli amanti passeggeri, Almodóvar si lascerà però andare alle esagerazioni dei primi anni, e i suoi ingredienti principali - erotismo, sesso, sregolatezza, divertimento, promiscuità, allucinogeni e alcool  - riemergeranno in una brillante commedia dall'indiscusso stile almodovariano.

Julieta, nelle sale italiane dal 26 Maggio 2016, non smentirà di certo la tradizionale vocazione del geniale manchego a creare storie orbitanti attorno al pianeta femminile: uno spazio infinito cosparso di figure bugiarde, vulnerabili, forti, sincere, angeliche e demoniache, orrende e bellissime, prostitute e vergini… un appassionato elogio a quel mistero chiamato Donna.