2017: aspettative confermate, inattese delusioni e piccole perle sconosciute
Ormai giunti a fine anno, e smaltite le indigestioni natalizie, eccoci nuovamente pronti ad affrontare con tenacia e determinazione la grande abbuffata del 31 dicembre. Ma noi amanti della Settima Arte siamo abituati all’eccesso bulimico, e dato che i film sono cibo per la nostra mente, con costanza e fermezza ce ne siamo nutriti per l’intero 2017, e neppure sotto tortura potremmo rinunciare alle future pantagrueliche scorpacciate del 2018. Già, perché nonostante gli ingredienti scadenti o riciclati trovati a volte, ci è bastato aver potuto ogni tanto assaggiare inaspettati piatti cucinati ad arte per ripagarci di qualsiasi delusione.
Prima di parlare di quei piccoli gioielli poco conosciuti che hanno illuminato di felicità il mio 2017 cinematografico, vorrei planare a volo d’uccello sulle opere più celebri e degne di nota uscite in sala in questi ultimi 12 mesi, tra le quali Jackie di Pablo Larraín. Soltanto un regista come lui - Tony Manero, Post Mortem, No, El Club, Neruda - poteva realizzare un biopic così potente e lontano dagli stilemi hollywoodiani, dove solitamente regnano asettiche figure che si muovono all’interno di patinate confezioni. Portare sul grande schermo una delle donne più amate, e al contempo odiate, dal popolo americano, implicava un rischio enorme, eppure il filmmaker cileno ha regalato al pubblico un film sorprendente in cui disperazione, sicurezza, fragilità, opportunismo e glamour si incastrano come tessere di un puzzle per comporre l’enigmatico personaggio di Jackie Kennedy, che nel suo Chanel rosa macchiato di sangue continua, per fortuna, ad occupare la mia mente. Altro personaggio insinuatosi tra i miei ricordi è quello di Lee Chandler (interpretato da uno stratosferico Casey Affleck meritatamente aggiudicatosi l’Oscar), il protagonista di Manchester by the Sea di Kenneth Lonergan. Il regista newyorkese è riuscito a mettere in scena, con un’intensità da lasciare senza fiato, il dramma del dolore per il più atroce lutto sopportabile da un essere umano con un’asciuttezza che ha dell’incredibile. Mille parole, pianti o urla non avrebbero ottenuto lo stesso risultato del non detto che vibra nei gesti e negli sguardi di Lee Chandler: un turbinio continuo di fortissime emozioni. Che dire poi di Blade Runner 2049 a firma Denis Villeneuve? Bè, in alcuni casi l’età ha la sua valenza, e non mi vergogno quindi a rivelare che nel 1982 me ne stavo comodamente seduta nella poltroncina rossa del cinema a godermi la pellicola originale di Ridley Scott. Mai avrei però pensato che a qualcuno potesse balenare l’idea di fare un sequel di un simile capolavoro, e invece... oltre che smentirmi, il coraggioso Villeneuve se l’è anche cavata egregiamente. E’ infatti impossibile non farsi catturare dal suo K: un replicante anomalo, un robot più umano di tanti umani, un essere che pur conoscendo i propri limiti si spinge fino ai confini dei sentimenti a lui consentiti. Come d’altronde non è facile dimenticarsi di una delle scene clou di questo complesso lungometraggio: la sovrapposizione tra l’ologramma Joi (bellissima ragazza virtuale) e la prostituta Mariette. Chiudo questa mia rapida panoramica con un’opera Disney-Pixar di tutto rispetto, Coco di Lee Unkrich. Commovente, divertente, educativo e imperdibile, questo film d’animazione è un piacere per gli occhi e un balsamo per il cuore. Adatto agli spettatori da 0 a 100 anni e oltre, Coco è destinato a diventare nel tempo uno dei grandi classici da vedere e rivedere: 120 minuti di pura magia.
Ma se molti sono stati i lavori che non hanno deluso le mie aspettative, uno su tutti ha invece profondamente minato la mia stabilità psico-filmica gettandomi nel più cupo sconforto: La La Land, di Damien Chazelle. Ebbene sì, lo ammetto, durante la proiezione del film che ha ricevuto 14 candidature ai Premi Oscar (eguagliando lo strepitoso Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz, e ho detto tutto!), portandosene a casa ben 6, ho faticato molto a tenere gli occhi aperti: la noia mi aveva avvolta nelle sue spire invisibili. Sì, la troppo sbandierata fama di opera destinata ai sognatori si è per me rivelata un incubo a occhi semichiusi, dove banalità dei dialoghi, scarsa bravura nel ballo e nel canto di Emma Stone e Ryan Gosling, musica jazz trattata in modo stereotipato e perenne manfrina del sogno americano mi avevano completamente stremata, e poi... mi spiegate perché il protagonista, che è un folle sostenitore del jazz, nei momenti top della sua vita si lascia trasportare corpo e anima da insipidi motivetti neomelodici? Ora che ho fatto outing mi sento più leggera, ma ho ancora un sassolino nella scarpa che insiste a darmi un gran fastidio, meglio provare a toglierlo e vedere che succede: il caso The Place, di Paolo Genovese. Devo confessare che ero positivamente curiosa di assistere all’ultima fatica del regista di Perfetti Sconosciuti, anche perché, è inutile negarlo, il cinema italiano sta lentamente sprofondando in uno stato comatoso in cui come in un loop il tema è sempre lo stesso: problemi di coppia in tutte le salse, dalla commedia al dramma. Lo riconosco, ogni tanto vi sono sprazzi di vitalità che fanno sperare in una lieve ripresa della nostra industria cinematografica, come ad esempio Riccardo va all'inferno, musical grottesco di Roberta Torre che ha squarciato la monotonia del già visto, o Smetto quando voglio: Ad honorem di Sydney Sibilia che, sebbene terzo e ultimo capitolo della saga dei ricercatori diventati spacciatori per necessità, ha strappato grasse risate al pubblico in sala. Ma torniamo a The Place. Se con La La Land è stata una dura lotta tra me e le invitanti lusinghe di Morfeo, con l’opera di Genovese la battaglia si è invece spostata sul campo minato dell’irritazione. Saltellando da una battuta superficiale all’altra, ho infatti tentato di non esplodere di rabbia per l'estrema faciloneria con cui il regista romano ha trattato un argomento tanto serio quale quello del libero arbitrio. In fin dei conti il suo lavoro altro non è se non la pedissequa trasposizione della serie tv americana The Booth at The End (anche se con qualche piccola variazione legata all’attualità italiana), ed è proprio in questa mancanza di originalità - oltre che nell’artificiale e schematica messa in scena e nella totale assenza di tensione dovuta a uno script più che prevedibile - che il progetto Genovese mi ha portata a naufragare in un mare di collera.
Fortunatamente il mare è però anche coprotagonista di una di quelle perle rare che ho incontrato in questa stagione e che ha superato di gran lunga ogni mia aspettativa: Alamar, di Pedro González-Rubio. Purtroppo, per motivi qui troppo lunghi da esaminare, esistono alcune opere che con difficoltà trovano spazio nelle sale, e questo è il caso del film messicano, un inatteso piccolo capolavoro che racconta con poesia una grande storia d’amore tra padre e figlio. González-Rubio conduce lo spettatore nello sperduto atollo corallino di Banco Chinchorro e lo introduce nella quotidianità di una vita semplice, di un’esistenza basata sul rispetto per la natura selvaggia e per le proprie radici. Che l’essenza della felicità risieda nelle cose semplici è un mantra che andrebbe giornalmente ripetuto, ancor più dopo aver goduto di 73 minuti colmi di indimenticabili emozioni. Ecco, questo sconosciuto gioiellino è riuscito a scavare nell’intricato labirinto dei miei pensieri ritagliandosi un posto d’onore... il primo. Altro film che ho particolarmente apprezzato, malgrado le mie iniziali titubanze, è stato La vendetta di un uomo tranquillo, di Raúl Arévalo. L’attore madrileno, qui al suo debutto dietro la macchina da presa, ha realizzato un noir crudo, dirompente e maledettamente ipnotico. La sua capacità di far quasi toccare al pubblico la violenza, come fosse materia viva, senza però mai ricorrere a scene cruente o a immagini orrorifiche è una dote davvero incommensurabile. La struttura narrativa, solida come un pavimento di granito, grazie a un crescendo di suspense mi ha tenuta inchiodata alla sedia da inizio a fine proiezione proprio come mi è accaduto nell'assistere a Scappa - Get Out, opera prima di Jordan Peele. Sarà che gli esordienti hanno una marcia in più, sta comunque di fatto che questo thriller cosparso di elementi del terrore è perturbante, spaventoso e girato tremendamente bene. Peele è inoltre riuscito a rappresentare in maniera diretta e senza remore anche l’ipocrisia razziale che dimora nelle classi liberali statunitensi, il tutto in un prodotto semi horror: geniale! D’altronde, l’incasso totale di quest’opera si aggira intorno ai 252 milioni di dollari a fronte dei 5 spesi… e pensare che Scappa – Get Out da noi è uscito a Maggio, per le sale cinematografiche mese notoriamente morto. A febbraio è invece arrivato al cinema un tanto prezioso quanto inaspettato regalo: Un Re allo sbando, scritto e diretto dal duo Jessica Woodworth & Peter Brosens. Ora, sfido chiunque a ricordarsi questo titolo. E sì, perché in quel mese il grande schermo proponeva: Manchester by the Sea, Jackie, T2 Trainspotting, La battaglia di Hacksaw Ridge, Moonlight, The great wall e Barriere. Schiacciato dunque dai colossali cugini ricchi, il surreale ed esilarante road-movie belga è caduto ingiustamente nell’oblio. Ma non per me che, avendo la fortuna di svolgere un’attività che mi consente di dar libero sfogo al mio ‘onnivorismo filmico’, a fine visione di King of the belgians (titolo originale ben più azzeccato di quello italiano) ho letteralmente gongolato di gioia. Attraverso l’ironia e il ritmo travolgente i due cineasti si interrogano sull’utilità - o meno - della monarchia, sul valore dell’amicizia, sull’importanza dell’Unione Europea e sui conflitti che hanno devastato i Balcani: tutte questioni serissime affrontate con intelligenza, ilarità e sarcasmo. A proposito di sagacia, umorismo e originalità, Aki Kaurismäki con L'altro volto della speranza non poteva assolutamente mancare nella mia shortlist. Produttore e sceneggiatore di ogni suo film, il regista finlandese ha saputo raccontare una storia di emarginazione tesa a mandare in frantumi quei tipici clichè europei in cui i profughi sono visti o come vittime, o come arroganti immigrati clandestini: un universo di paradossali antieroi, un’umanità strampalata che non si arrende mai, neppure al destino più beffardo.
Dover scegliere soltanto alcuni titoli tra le tante ‘pellicole’ viste nell'ultimo anno non è impresa facile, e di sicuro ne avrò dimenticati molti, tant’è che mentre scrivo ecco spuntarne uno per me imprescindibile: On the Milky Road di Emir Kusturica. Si sa, Kusturica o si ama o si odia. Il suo cinema visionario, eccessivo, magico, passionale, assordante e travolgente non deve necessariamente piacere a tutti, ma si da il caso che io sia una forte sostenitrice della sua folle e fanciullesca genialità e, pur riconoscendo in On the milky road alcuni limiti narrativi, quella splendida sensazione di sogno e fantasia rimasta a lungo in me dopo la proiezione, è impagabile.
Perché il cinema ha il potere di condurci sia in luoghi incantati dove il dolore non ha accesso, che in ambienti cupi in cui nessun tormento ci viene risparmiato. Sì, obietterete voi, ma il cinema è finzione… Certo, rispondo io, ma non è il mondo reale il più grande palcoscenico della vita?
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