Xavier Dolan, crescita di un enfant prodige
Vent’anni e non sentirli
Una filmografia breve (solo sei lungometraggi) ma intensa che ha già portato alla ribalta il suo nome: Xavier Dolan. All’indomani del crescente successo ottenuto da questo giovane regista canadese, e nell’ottica di una serie di illuminati ripescaggi a cura della Movies Inspired, che sta portando poco alla volta in sala le opere fino a qualche tempo fa ‘snobbate’ di questo enfant prodige, ripercorriamo insieme i primi passi di una promettentissima carriera tutta in divenire. Tra lotte per l’identità, amori conflittuali e irrisolti, precarietà della vita, morte, e un disperato bisogno di trovare la propria voce nel mondo. Un genio artistico che si muove tra senso e sentimento, all’interno di un graduale processo narrativo in cui l’estraniamento dalla realtà si accompagna alla necessità di sopravvivere, ai dolori della vita così come al senso estremo di smarrimento.
J’ai tue ma mere (2009)
A soli vent’anni, il canadese Xavier Dolan, classe 1989, fa un esordio che la dice lunga sul suo futuro percorso artistico. Il suo J’ai tue ma mere (letteralmente ho ucciso mia madre), opera forte e controversa sin dal titolo, viene infatti presentata all’interno dell’ambitissima vetrina della Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2009, dove vince ben tre premi. Quest’opera prima, riflessione maledetta e violenta sul rapporto madre-figlio, tematica che ritornerà più e più volte all’interno dei lavori di questo cineasta - tracciando uno dei maggiori fil rouge del suo cinema, sentimento in bilico tra eros e thanatos, interpretata da se stesso e da quella che sarà poi una delle sue attrici feticcio Anne Dorval, catalizza subito l’interesse dei cinefili più attenti. Una luce già evidente sul talento comunicativo di questo giovane canadese che di lì a breve entrerà nella rosa dei registi festivalieri più interessanti e attesi.
Les Amours Imaginaires (2010)
Un anno dopo il suo debutto, Dolan torna nuovamente sulla Croisette (nella sezione Un certain regard) per presentare il suo secondo lungometraggio Les Amours imaginaires. Rivisitazione postmoderna a metà strada tra il bellissimo Jules e Jim di Truffaut e il controverso The Dreamers di Bertolucci, con quest’opera seconda l’enfant prodige canadese decostruisce amicizia e sentimento amoroso in un colpo solo attraverso un triangolo relazionale che getta due storici amici (Francis e Marie) nella competizione estrema per l’amore di Nicolas. La voce degli amori reali si confonde a quella degli ‘abbagli amorosi’ e degli affetti immaginari.
Proiezioni, illusioni, ed elucubrazioni sentimentali ruotano veloci nella girandola di immagini, musica e parole messa in piedi dal vulcanico Dolan. Un lavoro per molti versi imperfetto e acerbo ma già capace di isolare ed evidenziare il potere dirompente di uno sguardo affacciato sul mondo degli affetti come trasposizione bellissima e dolorosa del nostro esistere. Colonna sonora che (come nello stile oramai consolidato del regista) è un vero e proprio sparo di musica, senso e sentimento al cuore. Bang bang.
Laurence Anyways (2012)
È proprio con il terzo lungometraggio dal titolo Laurence Anyways e il desiderio di una donna… (ancora una volta presentato a Cannes) che Xavier Dolan mette a segno il primo colpo da maestro. Quello che poteva essere sbrigativamente inserito all’interno del filone “Queer” ed etichettato come cinema di nicchia, si riafferma invece con Laurence Anyways come un cinema assoluto, potente, disarmante, capace di ricreare emozioni e percezioni attraverso incanto e disincanto del relazionarsi umano. Due protagonisti splendidi (Melville Popaud e Suzanne Clement), interpretano perfettamente i colori e il temperamento onirico di quest’opera che è una sorta di danza nel valore dell’identità, umana, sessuale, relazionale, affettiva. La storia di un giovane uomo, stimato professore di letteratura, in cui implode da tempo la sua parte femminile e che ora rivendica il suo spazio, diventa così walzer di coppia in cui sgretolare e ricomporre il Sentimento, quello puro, assoluto, trascendente, capace di andare oltre la ‘superficialità’ e l’apparenza dei corpi e delle loro pulsioni. Scene bellissime, veri e propri quadri in movimento contraddistinguono l’anima di quest’opera terza che segna davvero il primo vero passo nell’anima del cinema di Dolan, un cinema dove il cuore e la poesia si liberano sincere in musica, immagini e parole. Laurence e Xavier, comunque e in ogni caso. Chapeau.
Tom à la ferme (2013)
Con Tom à la ferme Dolan ritorna su uno dei sentieri cardine del suo cinema, ovvero la lotta per l’accettazione, manifestazione della propria identità, rivendicazione del proprio posto nel mondo. Il viaggio di Tom (interpretato dallo stesso Xavier Dolan) negli abissi del lutto per la morte del suo compagno, e alla ricerca tra i famigliari del defunto di una spalla solidale con cui piangere, scardina e sgretola nelle atmosfere violente, torbide, da thriller, il dramma di un mondo distante, di una verità mai condivisa, di una omosessualità “interrotta”. Un film cupo dove la dimensione su carta bucolica della ferme (ovvero la fattoria) si macchia invece dell’orrore delle omissioni, dei rimorsi, delle parole strozzate in gola e sfogate in un’attrazione e ossessione divenute presto fatali. Ancora una volta in bilico tra vita e morte, tra realtà e proiezione onirica, Dolan muove il suo Tom verso un luogo che è salvezza e perdizione, firmando un altro doloroso e toccante capitolo sulle contraddizioni dei rapporti, sull’omofobia, sull’odio per ciò che non è noto, e che in quanto tale “ha il potere di ucciderci”.
Mommy (2014)
Mommy segna senza alcun dubbio per Xavier Dolan il momento più alto, il film della maturazione artistica, il vertice dell’equilibrio visivo e concettuale che forse sfuggiva (o non apparteneva ancora del tutto) alle opere precedenti. Con Mommy -‘riduzione’ infantile di “mamma”, e il titolo non potrebbe essere più perfettamente a fuoco-, Xavier Dolan torna al soggetto del suo primo film, e rivisita il sistema amore-morte che condiziona un rapporto madre-figlio, bellissimo e disperato. Con il formato 1:1 e i volti che bucano letteralmente lo schermo, tre protagonisti fenomenali (Antoine Olivier, Anne Dorval nei panni della eccentrica Mommy, e la Suzanne Clément già protagonista di Laurence Anyways), un’immersività che spalanca le porte dell’emozione allo spettatore, il piccolo genio canadese sintetizza e ottimizza il suo discorso sull’amore. Complesso, conflittuale, morboso, appassionato, disperato. Un amore che si analizza e descrive dall’origine di tutto, dall’amore primigenio, ovvero l’amore per eccellenza, quello che lega una madre a un figlio. Immagini che spiazzano, parole che sciolgono il cuore e tagliano l’anima, musiche che impennano senso e sentimento. Non tanto un’opera da vedere con gli occhi quanto un viaggio da intraprendere, a pieni sensi, nella bellezza e nella disperazione dell’amore. Una incursione, come poche altre, davvero superba nel lessico famigliare e nella dislessia - che a volte sfiora addirittura il mutismo - degli affetti. Premio della GIuria al 67° Festival di Cannes. Piccoli geni crescono.
Just la fin du monde (2016)
Ultimo in ordine cronologico a opera di Dolan arriva poi (per la seconda volta nella sezione principale del concorso di Cannes) Juste la fin du monde (basato sull'omonima piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce). Quella più machiavellica e meno o più dolaniana in assoluto (a seconda dei punti di vista), è opera che spiazza per la concentricità con cui affronta (di nuovo) il tema della morte che si pospone e si abbraccia al tema dei veleni affettivi, della corrosività famigliare, della non comprensione e mancanza di empatia tra individui. Un’opera in cui il vero Dolan si mimetizza sottilmente, lasciando la scena al testo teatrale da cui il film è tratto, salvo poi riemergere in tutta la sua forza in quei momenti chiave, dove la parola si mette in pausa per lasciare spazio alla rievocazione potente di immagini e musica. Un binomio, quest’ultimo, che descrive al meglio il cinema-Dolan, una sorta di frenetica corsa in skate (Mommy docet) con il vento che sferza il viso e la musica che riempie l’anima e il cuore, facendo riaffiorare i momenti topici, le emozioni congelate, gli attimi esemplificativi di una vita. Just la fin du monde, infine, è l’impianto teatrale di un dramma estremo, la morte che dovrebbe prendere la parola ma che viene più e più volte sopraffatta dall’acredine dei rapporti, dal veleno delle rivendicazioni, dagli asti mai sopiti. Tra le mura di una casa e nella prossimità dei propri congiunti, Dolan racconta l’irraccontabile e dà voce all’orrore, quello vero, dei legami di sangue che diventano “gelati al veleno o camere a gas”.
Un giovane talento “tuttofare”
Artista e “tuttofare” del mondo del cinema, Xavier Dolan ha dato (in un decennio circa di attività) prova di essere non solo un talento registico, ma un talento a tutto tondo nel mondo del cinema, che non ama delegare agli altri ma preferisce piuttosto tenere totalmente in mano, e dall’inizio alla fine, le redini delle proprie opere. Dalla sceneggiatura ai costumi, dalla regia alle musiche, e arrivando perfino al montaggio, il giovane del Quebec ha infatti conferito al proprio cinema un imprinting del tutto personale, dando vita a opere che non solo rispecchiano a pieno la sua anima, ma che veicolano il suo stile e applicano il suo modus operandi, perché come lui stesso ha dichiarato: “È solo una questione di energia, è una necessità, è il mio modo di esprimermi: quando ho voglia di fare una cosa e penso di esserne in grado voglio farla pienamente. È come una droga, evidentemente io ho un ritmo di consumazione più alto"
Non solo ralenti, impennate, e una cifra stilistica più unica che rara dunque, ma un vero e proprio mondo trasformato in sguardo filmico, in cinema, in espressione artistica. Un ‘nuovo mondo’ per un nome che ha già fatto molta strada, ma che (ne siamo certi) ne ha ancora tanta da fare…