Ilenia Pastorelli e Gabriele Mainetti raccontano: Lo chiamavano Jeeg robot
“Sinceramente, mi aspettavo che quel premio andasse a Valerio Mastandrea e ai suoi collaboratori, i quali si erano buttati sulla produzione del film di un regista che, poverino, stava molto male e che non è arrivato neppure a chiudere completamente il montaggio. Mi è dispiaciuto e ancora porto dentro il fatto di non aver detto nulla di Claudio Caligari, perché, se faccio ciò che faccio, è anche grazie ai suoi film, soprattutto a L’odore della notte, che ti offre l’impressione di vedere Martin Scorsese a Roma”.
In riferimento al momento in cui , durante la consegna dei David di Donatello, gli è stato assegnato, tra i molti, quello per il miglior produttore dell’anno che, a detta sua, gli avrebbe fatto piacere fosse stato vinto da Non essere cattivo, a parlare è Gabriele Mainetti in occasione dell’uscita in home video - sotto il marchio Lucky Red - del suo acclamato lungometraggio d’esordio Lo chiamavano Jeeg robot, film che ha riportato i supereroi all’italiana sul grande schermo, ma di cui precisa: “A diciannove anni scrissi la mia prima sceneggiatura, che partiva come una sorta di film di genere in tributo a Clerks e Pulp fiction, ma che, poi, diventava serissima. Chi è riuscito un po’ ad emanciparsi è stato Niccolò Ammaniti, infatti, Branchie comincia ai Parioli e finisce in India con gli zombi. Quindi, mentre cercavo di riprodurre quel mondo che tanto mi affascinava, sentivo, pian piano, di perdere d’identità. Quentin Tarantino lo ha fatto, ha messo in discussione il modo di guardare film e, forse, è la conclamazione del post moderno nel cinema americano, dove tutto viene portato allo stesso livello ed esplode la narrazione. Ha fatto una rivoluzione incredibile, ma parlava di quel cinema. Io sono figlio un po’ di tutto, non solo di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica; il momento più felice della mia vita era quando, ogni domenica, soprattutto insieme a mio padre, guardavo sul divano un film che sceglieva lui. E sceglieva sempre le stesse cose: 007, Indiana Jones e tutto il cinema di Mario Monicelli e Alberto Sordi, che poi rivedevamo di volta in volta. Io, quindi, ho studiato e, a un certo punto, ho cercato di fondere tutte queste cose. Il mio pubblico è principalmente italiano, quindi devo usare ciò che ci appartiene, altrimenti si finisce a fare un’imitazione degli americani o nostalgica di quello che è stato il nostro cinema di genere degli anni Settanta”.
Perché, con Claudio Santamaria nei panni di uno sbandato romano di periferia destinato ad acquisire una forza straordinaria dopo essere entrato a contatto con liquami tossici nelle acque del Tevere ed a scontrarsi con un violento malavitoso interpretato da uno stupefacente Luca Marinelli, il lungometraggio non è un semplice omaggio al cinecomic, ma una esplosiva fusione di tematiche alla Romanzo criminale, supereroi e sottotesti sociali dovuti soprattutto al travagliato personaggio della co-protagonista Alessia incarnata da Ilenia Pastorelli, che, presente all’incontro, racconta: “Io ho trovato molto bello il fatto che il personaggio femminile non fosse una femme fatale, anche perché spesso, nei film, la donna è sempre e soltanto un oggetto sessuale, truccata e con i tacchi. Ancora oggi, faccio fatica a credere che sono stata premiata ai David come miglior attrice dell’anno. Io non avevo mai fatto un provino come attrice e avevo preso la cosa come un gioco, senza avere alcuna aspettativa. Avevo letto le battute e non avevo capito nulla della sceneggiatura, perché vi erano tutti questi ministri con nomi giapponesi e ho pensato si trattasse di pseudonimi usati per raccontare i nostri politici (ride). Avevo capito tutt’altro, poi ho letto il ruolo di Alessia e non l’ho giudicata come una matta, mi sono detta che, poverina, aveva avuto tutti quei traumi. Quindi, al primo provino ho trovato la Alessia che è in me ed in tutte le donne che credono nell’arrivo del principe azzurro. Per Alessia, lui è, semplicemente, Jeeg robot. Poi, Gabriele mi ha messo nelle mani di un acting coach che mi ha insegnato a collegarmi a lati oscuri, come, per esempio, piangere, in quanto ho sempre creduto che ciò, nei film, fosse tutto finto e che ti mettevano le lacrime sul volto. A proposito della scena di sesso, poi, è stata complicata e la abbiamo girata diverse volte, perché c’era un conflitto portante di Alessia tra quello che avrebbe voluto e il suo mostro interiore con cui doveva confrontarsi ogni giorno. Lei desidera un uomo, ma l’atto sessuale le ricorda la violenza subita da parte del padre. Ad un certo punto, ho deciso di lasciare tutta una struttura di pensieri che avevo pensato di utilizzare per quella scena, quindi, dopo il bacio ho pensato di fare la lista della spesa, perché lei, poi, in qualche modo esce da quella scena. Dovevo evadere mentalmente”.
E Mainetti, che non dimentica neppure di specificare come, appunto, per rendere possibile la realizzazione di un film del genere si è dovuto improvvisare produttore arrivando a coinvolgere anche Rai Cinema e il MIBACT, sperando, inoltre, che la riuscita di diversi recenti film italiani fuori dagli schemi (cita Veloce come il vento) spingano altri finanziatori ad investire in progetti di genere, ricorda: “Io ho visto tante attrici, tutte molto brave, ma mancavano di quel vissuto che Ilenia, in parte, ha detto di aver condiviso con il personaggio. Poi, uno degli sceneggiatori, Menotti, che è di Vasto, era contrario al fatto che Alessia sarebbe stata romana, ma io, invece, sono convinto che anche il dialetto influisca sul suono del personaggio. L’ho incontrata anche perché Nicola Guaglianone mi ha detto ‘Noi per alcune battute ci siamo ispirati ad Ilenia Pastorelli, che aveva fatto il Grande fratello’. Inizialmente, ho pensato che non avrebbe poi avuto la forza di arrivare fino in fondo, in quanto, tendenzialmente, le persone che non hanno esperienza attoriale riescono a riproporre se stesse, ma un attore è infinitamente più sofisticato, perché riesce a dare vita ad una serie di altre sfumature. Lei ha creato un personaggio e non solo, perché è andata a fondo”.
Un discorso, quello relativo alla recitazione, che abbraccia per il regista anche il lavoro degli stunt, in quanto, facendo riferimento ad una recente dichiarazione di Marco e Antonio Manetti in arte Manetti Bros, i quali hanno detto che gli attori italiani trovano oggi difficoltà nel girare scene d’azione, osserva: “Io credo che, quando gli stunt non funzionano, ciò sia dovuto al fatto che non conoscono quella cosa. La sequenza in cui Claudio e Luca si ammazzano di botte sotto lo stadio la abbiamo costruita insieme io e loro. Erano anche più bravi degli stunt, che hanno comunque fatto un lavoro favoloso. E quella scena è girata semplicemente con campo e controcampo. Abbiamo provato una settimana, magari Marco e Antonio sono costretti a risolvere in tre o quattro ore cose che necessiterebbero di due giorni. È successo a me con la sequenza iniziale in cui Claudio scappa, della quale non sono molto soddisfatto perché avevo pochissimo materiale da montare. Del resto, girare in tre ore un inseguimento sulle strade di Roma è un suicidio. Comunque, lo stunt è recitazione, bisogna studiare come si danno cazzotti nella stessa maniera in cui si studiano le battute. Io, tra l’altro, ho studiato profondamente L’uomo d’acciaio per quanto riguarda l’uso dei cavi e di tutto il resto. Quel film ha dei contenuti speciali pazzeschi. Per carità, anche il lavoro della computer grafica è meraviglioso e pazzesco, però è fondamentale che il corpo dell’attore si confronti con qualcosa di materiale, che non viene aggiunto dopo. Sono un po’ della scuola di John Carpenter, che vuole ricorrere solo minimamente ai VFX”.
Insomma, una conversazione con pubblico e stampa in cui si parla di Settima arte a 360°, tirando in ballo il fatto che David Lynch non fa commenti audio dei suoi film perché è un surrealista, che Dario Argento non aggiunge contenuti speciali nei suoi dvd perché dice di non girare nulla in più rispetto a ciò che vediamo e che Werner Herzog reputa strumenti per codardi gli storyboard, trovando, comunque, Mainetti dalla sua parte: “Io sono d’accordo su questo, perché la messa in scena, necessariamente, deve essere libera, in quanto ti devi far toccare dal reale, dagli attori, da ciò che succede sul set, non puoi organizzarla solamente a tavolino. Poi, mi ricordo che, quando abbiamo girato la scena allo stadio, costata quarantamila euro, Claudio Santamaria si è stirato un muscolo subito, di mattina presto, al terzo ciak. Alla fine, abbiamo fatto tutte quelle scene allo stadio con la controfigura, di schiena (ride). Poi, siccome lui è un mio amico, non ha fatto 'l’attorino' che pretende di rimanere a casa una settimana per riposarsi, è venuto zoppicando sul set e nel film si mena con Luca Marinelli, ma, tra un ciak e l’altro, lo vedevi andare in giro malandato”.
Rivelando, così, una curiosità dal set che non vedrete nei contenuti extra del blu-ray, rappresentati da papere, backstage, scene tagliate, provini degli attori protagonisti, storyboard, trailer e dal cortometraggio Tiger boy; i quali rendono ancor più obbligatorio l’acquisto del titolo, a proposito di cui il suo autore conclude: “Questa edizione è così ricca di extra proprio perché volevo che tutto il lavoro fosse documentato al meglio. Pensavo di aver realizzato un buon film, non mi aspettavo affatto di ottenere un successo di pubblico e di critica di questo livello. Massimo Troisi diceva 'Ricomincio da tre', io, invece, penso sempre di trovarmi a dover realizzare il primo, con la stessa ingenuità e la stessa voglia di divertirmi a fare cinema. Una volta, alla domanda ‘Da cosa si riconosce Takashi Miike?’, il cineasta giapponese ha risposto: ‘Takashi Miike è il regista che ha fatto l’ultimo film’. Quindi, in questo momento io devo realizzare il film che sento e fregarmene di ciò che ho fatto prima. Ma, sicuramente, il mio secondo non sarà Continuavano a chiamarlo Jeeg robot”.