Documentari al cinema: Patricio Guzmán e la memoria del Cile
Per poter parlare dell’importanza di Patricio Guzmán, e del suo lavoro di documentarista, bisogna necessariamente esporre a brevi linee quelli che furono due eventi fondamentali nella storia del Cile: l’ascesa al potere di Allende e il Colpo di Stato dell’11 settembre 1973.
Nel 1970, nonostante la forte opposizione degli Stati Uniti d’America, un uomo chiamato Salvador Allende - leader del Partito Unidad Popular - divenne il primo Presidente marxista eletto democraticamente dal popolo. Il suo governo diede molta importanza alle politiche sociali e culturali: aumentò i salari e le pensioni minime, ridusse gli affitti, incentivò l’alfabetizzazione, favorì i contadini e i piccoli imprenditori grazie a sgravi fiscali, concesse il voto ai giovani di 18 anni e agli analfabeti, ridistribuì la ricchezza a vantaggio dei più poveri. L'ostilità del governo americano nei confronti di Allende è fuori discussione: gli Usa, con a capo Richard Nixon, consideravano infatti estremamente pericolosa la sua crescita politica, e non solo per motivi legati all'ideologia, ma anche per gli enormi interessi economici statunitensi in quell'area.
Patricio Guzmán, all’epoca dei fatti quasi trentenne, si trasferì in Spagna nel 1969 da Santiago del Cile - sua città natale - per frequentare la Scuola di Cinema madrilena. Nel periodo dell’adolescenza ebbe la fortuna di assistere alle proiezioni di alcuni documentari che il pubblico seguiva con grande interesse nelle sale cinematografiche: fu così che il seme della passione per il genere documentaristico iniziò a germogliare in lui. Tra il 1965 e il 1969 realizzò quattro cortometraggi, e fu soltanto nel 1971, anno del suo rientro in patria, che diresse il lungometraggio El Primer Año, opera che analizzava i primi dodici mesi del governo Allende. Il regista francese Chris Marker (La Jetée, corto che ispirò Terry Gilliam per L’Esercito delle 12 Scimmie), che si trovava di passaggio a Santiago durante l’uscita del film di Guzmán, si offrì di mostrarlo in Francia e in Belgio, e due anni dopo fornì al cineasta cileno i “rullini” per girare la trilogia La Battaglia del Cile. Era il 1973.
All’alba dell’11 settembre di quello stesso anno il generale Augusto Pinochet, alla guida dell’esercito, prese il potere con un golpe militare. La Moneda, il Palazzo Presidenziale, fu attaccata via terra e bombardata con dei caccia di fabbricazione britannica. Salvador Allende morì nel corso di quell’assedio, ma le cause del suo decesso appaiono tuttora controverse: suicidio o assassinio? Addentrarsi nei meandri di un mistero ancora irrisolto, o nel campo minato del ruolo che ebbero gli americani in quel Colpo di Stato, è troppo nebuloso: molto chiaro è invece ciò che avvenne durante i diciassette anni di dittatura dell’autoeletto Pinochet. La Giunta Militare, organizzando l’eliminazione di tutte le forze d’opposizione, trasformò lo Stadio Nazionale di Santiago in un enorme campo di concentramento al cui interno avvennero stupri, torture e interrogatori disumani. Circa 130.000 individui subirono violenze, e il numero dei morti è un macabro balletto di cifre, tra le 3500 e le 17000 (compresi i circa 3000 desaparecidos).
Lo stesso Guzmán fu catturato, minacciato di fucilazione e condotto nel famigerato Estadio Nacional, ma, grazie all’aiuto della moglie e di alcuni amici, dopo quindici giorni riuscì a fuggire da quell’inferno e, portando con sé i rullini di La Battaglia del Cile, iniziò a viaggiare per l’Europa.
Insieme all’amico Marker si mise a reperire fondi per il montaggio del film; l’aiuto economico non arrivò però dal vecchio continente, ma da Cuba. Guzmán partì dunque per L’Avana dove, diversi anni più tardi, terminò la sua indimenticabile trilogia sulla fine della presidenza di Allende. La Battaglia del Cile, che è diviso in tre parti - La Battaglia del Cile: L'Insurrezione della Borghesia (1975), La Battaglia del Cile: Il Colpo di Stato (1976), La Battaglia del Cile: Il Potere Popolare (1979) - è considerato da molti critici il più bel documentario cileno di tutti i tempi. Vinse numerosi premi sia in Europa che in America Latina, fu distribuito in 35 Paesi e venne definito dalla rivista americana Cineaste “uno dei dieci migliori film politici del mondo”. L’amore per il suo Paese e per il Cinema fecero sì che Guzmán - nonostante non tornò mai più a vivere in Cile - continuasse a realizzare opere di altissimo spessore tanto culturale che politico, quali: En Nombre de Dios, 1987, dove si racconta la lotta della Chiesa Cattolica a favore dei diritti umani durante la dittatura di Pinochet; Chile, la Memoria Obstinada, 1997, che tratta dell’amnesia dei governanti cileni; Il Caso Pinochet, 2001, incentrato sulla detenzione dell’ex dittatore nel carcere di Londra; Salvador Allende, 2004, basato su filmati d’epoca e su interviste a persone che avevano conosciuto il Presidente cileno sin dalla sua infanzia.
Ma, al di là dell’indiscusso valore storico, cosa è che rende i documentari di Guzman così importanti e speciali? Già, perché malgrado l’esistenza di docu-film in quantità esagerata, le opere del regista cileno rimangono impresse nella mente come un marchio a fuoco. La forte empatia che lo spettatore vive assistendo ai suoi lavori è certamente generata da un elemento particolare: la poesia. Questo ingrediente, così alieno nei film che trattano gli orrori delle dittature, si riscontra principalmente in Nostalgia della Luce, 2010, e ne La Memoria dell’Acqua, 2015. Due splendide opere in cui Guzmán torna a esplorare il passato politico del suo Paese ricorrendo all’allegoria e alla metafora, uniche forme accettabili sia per il governo che per buona parte del popolo cileno. La sua voce fuori campo racconta i suoi pensieri profondi, e le sue riflessioni filosofiche accompagnano immagini a volte strazianti, a volte di una bellezza mozzafiato.
Nostalgia della Luce parla della distanza tra cielo e terra, tra luce del cosmo ed esseri umani. Lassù nel deserto di Atacama, a tremila metri di altezza, dove la trasparenza della volta celeste permette di vedere fino ai confini dell’universo, astronomi di tutto il mondo si riuniscono per osservare le stelle. In basso, invece, dove l’aridità del terreno ha preservato intatti per sempre residui umani - mummie, esploratori, minatori e… ossa di prigionieri politici - un gruppo di madri disperate rimuove pietre alla ricerca dei resti dei propri figli.
Ne La Memoria dell'Acqua il linguaggio di Guzmán diviene ancora più allusivo, ostinatamente lirico, e lo splendore della natura risalta in netta contrapposizione alla feroce crudeltà dell’essere umano. Lo sterminio degli indigeni attuato per mano dei colonizzatori lascia infatti il passo ad atrocità ben più vicine ai nostri giorni, quando uomini e donne che si opponevano al regime, gettati in mare da elicotteri e aerei come sacchi della spazzatura, trovarono nell’Oceano l’indegna sepoltura.
Guzmán ha reso il genere documentaristico una metafora delle sue ossessioni, e le sue indagine su: eccidi di intere tribù, rivoluzione cilena, golpe di Pinochet con le sue nefaste conseguenze, sono una nitida e appassionata analisi che smuove le coscienze e intralcia la pericolosa amnesia dei popoli.
Grazie alla totalità della sua opera, il regista cileno riesce a dimostrare che, trasformare la memoria personale in memoria collettiva, non è impossibile: “Un Paese senza cinema documentaristico è come una famiglia senza album di fotografie”, Patricio Guzmán.