Cristian Mungiu e la “Noul val” del cinema romeno

Dal margine polveroso di una Romania in lenta risalita e ancora in feroce lotta con i propri demoni (ideologici, sociali, reali), nel 2001 il regista romeno Cristi Puiu (vincitore poi a Cannes 2005 con La morte del signor Lazarescu e largamente apprezzato anche a Cannes 2016 con Sieranevada) faceva emergere quello che è stato poi successivamente definito come il battistrada della cosiddetta new wave “Noul val” del cinema romeno: Marfa si banii (Stuff and Dough). L’on the road fragile, inquieto, ansiogeno dei tre giovani protagonisti coinvolti (Ovidiu, Vali e Bety) rappresenta infatti il tentativo di fuga, il punto di (s)volta verso una realtà migliore che si allontana, però, gradualmente come fosse un miraggio, riconducendo il giovane Ovidiu a un passo ‘vuoto’ della propria condizione esistenziale di partenza. Realizzata con un budget davvero esiguo, macchina fissa in spalla, l’opera prima di Puiu si muove leggera, concreta e al tempo stesso drammatica tra i volti e lungo il viaggio di questi tre ragazzi su di un furgoncino sgangherato (proprio come la loro vita) rimasti invischiati in un ‘affare’ ben più grande di loro, ma determinati in qualche modo a portare a termine la missione e guadagnare il giusto compenso.

Contrasto etico, corruzione solida e dilagante, speranza di svolta rimpallata nell’idea di una vita migliore, realtà contingenti di estrema indigenza, sono i tasselli fondanti di un’opera dallo sguardo neorealista che quindici anni fa segnava il profilo sinuoso e interessante del ‘nuovo cinema romeno’, oggi incarnato da una solida e florida squadra di registi contemporanei (il già citato Cristi Puiu, l’affermatissimo Radu Mih?ileanu, ma anche Corneliu Porumboiu, Radu Munteanu, Catalin Mitulescu, il compianto Cristian Nemescu), e per qualche verso capitanato da uno dei nomi attualmente più celebrati del cinema d’autore internazionale: Cristian Mungiu (Premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes 2016 con Bacalaureat).

Aborti clandestini, credo oscurantista, contrasto ideologico e generazionale in bilico tra etica e risultati.
Solo quattro lungometraggi (cinque se si conta la partecipazione all’interessante collettivo Racconti dell’età dell’oro – ‘leggende urbane’ ambientate nell’era di Ceausescu) hanno, di fatto, già consacrato il talento e l’enorme potenziale artistico di questo regista che con i suoi lavori ha inquadrato perfettamente il limbo della Romania degli ultimi decenni, un Paese in perenne transizione eppure proteso verso una potenziale, definitiva svolta.

Se con l’apprezzata opera di debutto del 2002 Occident, Cristian Mungiu esplorava la voglia dell’est di emigrare a occidente per inseguire il sogno ‘classico’ di una vita migliore, con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (Vincitore a Cannes 2007 della Palma d’Oro come miglior Film), Mungiu descriveva invece una prima cocente falla della struttura sociale rumena, portando alla luce l’oscura realtà degli aborti clandestini nella Romania precedente alla caduta di Ceausescu, e sottolineando il moto di presa di coscienza e in qualche modo ribellione di due ragazze (Otilia e Gabjta) unite in un dramma sordo di perdita e smarrimento. In questa sua celebrata opera seconda Mungiu evidenzia con stile di partecipato realismo una società ancora pienamente vittima del controllo del regime, ma già alla ricerca di una qualche emancipazione e “assoluzione” dal proprio passato.

Oltre le colline
Con Oltre le colline il disegno asfissiante e senza luce del film precedente infila un vicolo ancora più cieco, descrivendo nei minimi dettagli una comunità religiosa Ortodossa rintanata in una campagna remota e isolata, e imprigionata in maniera bigotta nel proprio credo oscurantista. Il film mette a fuoco con bruciante gradualità la lenta rottura del legame tra le due tenere ragazze protagoniste Voichita e Alina (ancora una volta due giovani alle prese con una realtà più forte e oscura di loro), all’interno del quale s’insinua senza possibilità di ritorno o redenzione il punto di vista gretto della comunità religiosa sulla quale si fa affidamento, e che si percepisce – erroneamente - come ancora di salvezza. Una via crucis che prende (terribile) ispirazione da una storia vera e che parla di (ir)responsabilità diffusa, irrazionalità, pratica del bene che muta senza dubbio alcuno in evidenza del male. Quel confine sottile tra accudire, prendersi cura e ‘far soggiacere’ che resta al centro del dibattito sociale spesso esplorato dal cinema di Mungiu e che sarà poi protagonista anche dell’opera successiva.

Bacalaureat/Graduation
Ed è infatti proprio con Graduation che Mungiu fa un ulteriore, definitivo salto di qualità, confermando non solo la sensibilità di uno sguardo acuto e partecipe sui ‘problemi’ della propria terra, ma anche l’abilità di uno svolgimento fluido, perfettamente armonizzato e compiuto, che dalla sceneggiatura al cast e alla regia delinea il profilo di un progetto artistico di esemplare funzionalità. Ancora due personaggi (questa volta un padre e una figlia) catalizzati da scelte difficili, e argomentati in un confronto di azioni e conseguenze che mostrano tutto il limite di una vecchia mentalità a favore di una nuova, evidenziando ancora una volta l’empasse di una transizione che opera su modus operandi diversi e che oppone l’etica al risultato, la morale al fine, consegnando alla legittimità della seconda la testa della prima. Un’opera perfetta sotto molteplici punti di vista che opera entro il realismo e l’asciuttezza tipici di questo cinema, che risente forte l’influenza di una tradizione sociale dei ‘minimi’, e che cova però silente il crescendo del proprio ritmo, del proprio cuore emozionale, drammatica diegesi di questo rapporto padre/figlia contaminato dal paradosso del male del ‘fare la cosa giusta’.

Con quest’opera il cinema di Mungiu cerca e rivela una compiutezza esemplare, perfetta incarnazione della ricchezza comunicativa del cinema romeno contemporaneo, capace di coniugare contenuti e forma in un processo di sottrazione che si fa evidenza, un linguaggio dei minimi che affronta i grandi temi del presente. Uno sguardo profondo e acuto che, come prerogativa del grande Cinema, muove dal suo sguardo parziale un discorso finemente generale, universale, e che prende a prestito lo scenario ‘romeno’ per parlare, di fatto e senza ‘freni inibitori’, del nostro nuovo mondo contemporaneo.